Non mi ricordo dove l’ho letto sul web ma faceva più o meno così: la nascita delle signorie nell’Italia del ‘500 marca uno spartiacque per la storia d’Italia. I vari signorotti, duchi, principi, marchesi ecc. avevano bisogno di una corte e di una serie di servizi di qualità. E’ in quel periodo che nascono i mestieri che rendono l’Italia famosa per quella che è nell’economia odierna: sarti, cuochi, pasticceri, artigiani d’alto livello, comici e giullari, prostitute e donne di compagnia, architetti, giardinieri ecc. Tutti mestieri che avevano un unico scopo: fare felici i padroni. Dopo 500 anni non è cambiato nulla: i mestieri per cui gli italiani sono famosi sono sempre quelli e i prodotti sono di alta qualità proprio per questo motivo, erano destinati per i regnanti.
Questo però che cosa comporta? Comporta la divisione della società in due strati, i padroni e i servi e quell’attitudine tutta italiana all’adorazione e sottomissione degli ominicchi del popolo nei confronti di chi ha il potere, i soldi o una grande cultura. Tutti i vari Egregio, Gentilissimo, Cavaliere, Commendatore, Professore, Dottore, Ingegnere ecc. non sono altro che il retaggio di quel tempo. Gente che per campare doveva leccare il culo ai padroni. E tuttora è così, non è cambiato assolutamente nulla. I padroni sono i politici locali e nazionali che si sono sostituiti ai regnanti del 500. E i servi sono il resto degli italiani, gente senza spina dorsale, sempre prona a raccogliere i resti che i padroni gettano nel pavimento e disponibile a colpire il vicino di casa pur di accontentare il padrone di turno.
Tutto questo mi è venuto in mente mentre ero in Italia e ho assistito a numerosi episodi in cui vari “servi” non erano in grado di prendere alcuna decisione o responsabilità per cose banalissime. Quando il padrone non c’è però l’italiano medio si è inventato qualcosa di formidabile: il pezzo di carta, i timbri, le firme e le autocertificazioni. In poche parole la burocrazia. La burocrazia italiana a mio parere nasce in questo contesto: il servo non si prende responsaiblità e chiede agli altri servi di mettere firme su firme su fogli che nessuno controllerà mai. Ma nel caso dovesse succedere qualcosa il servo si è coperto il culo e può vivere tranquillo e indisturbato. Perché non esiste peggior cosa in Italia di dover prendere una decisione da solo con tanto di responsabilità.
Ecco finalmente dove siamo d’accordo. La burocrazia viene vista non come un mezzo per garantire un funzionamento “certificabile” ed egualitario, ma esclusivamente come “parachiappe” da parte di chi possa poi scaricare responsabilità su altri, sistema, padroni o altro.
Sul resto, ho qualche dubbio, a partire dall’origine italiana del “piacere” e del lusso.
Un Sorriso
D’accordo anche io solo sulla seconda parte, dove li mettiamo allora gli architetti egizi e gli ingegneri dell’impero romano oppure un Brunelleschi che nel 1300 costruisce una cupola che è un capolavoro insuperabile.
Per Nero
Nel post non ho parlato dell’origine dei “mestieri” dell’umanità in generale. Ho solo parlato dell’origine dei mestieri italiani. Ogni popolo e ogni tempo poi hanno prodotto gli stessi mestieri ma in contesti diversi. Ma è indubbio che la sartoria, la cucina e l’artigianato di qualità italiani nascono in quel contesto. Prodotti per i padroni che poi vengono usufruiti da tutta la popolazione più avanti.
rumore di unghie che strisciano sul vetro :-))))
scrivi:
“E’ in quel periodo che nascono i mestieri che rendono l’Italia famosa per quella che è nell’economia odierna: sarti, cuochi, pasticceri, artigiani d’alto livello, comici e giullari, prostitute e donne di compagnia, architetti, giardinieri ecc.”
mi sembra resti opinabile….ma non me la prenderei più di tanto.
Tra l’altro non è un fenomeno italiano, ma per lo meno europeo (anche se il numero di corti in Italia era altissimo mentre all’estero, forse con l’esclusione di Francia e Germania, assai più ristretto.
Quello che mi interessa del post è la parte del “parachiappe”. Ovvero perchè debbono esserci interpretazioni distorte del concetto di garanzia? Oppure cos’altro? In una “nazione libertaria” cosa potrebbe/dovrebbe/avviene nel caso che un diritto venga violato? Chi offre un servizio in modo fraudolento rischia qualcosa in concreto oppure potrebbe farla franca di “truffa” in “abuso”….
Un Sorriso
O.T. (ma non troppo)
Un articolo d’attualità che, credo, possa interessare:
Da Eurostat e Istat, dito nella piaga delle contraddizioni italiane
di Enrico ZANETTI
L’Eurostat non avrebbe potuto essere più tempestivo.
I dati diffusi l’altro giorno certificano il basso livello degli stipendi italiani nel settore privato, proprio mentre in Italia si prende atto di come, invece, nel settore pubblico gli stipendi dei dirigenti siano tra i più generosi d’Europa e forse del mondo.
Non è vero, come era sembrato a una prima lettura dei dati, che persino la Spagna e la Grecia ci sopravanzino: l’Istat, nella giornata di ieri, ha con pari tempestività spiegato dove risiedeva l’errata lettura di dati offerti dall’Eurostat in modo evidentemente un po’ criptico.
È però vero che il valore dello stipendio annuo di un lavoratore di un’azienda dell’industria o dei servizi, con almeno dieci dipendenti, si attesta in Italia su livelli inferiori alla media dei sedici Paesi dell’eurozona e su livelli nettamente inferiori a quelli di Paesi come la Francia e la Germania: nel 2008, 29.653 euro contro, rispettivamente, 34.392 euro e 38.005 euro.
Se, nel confronto tra diversi Paesi, alcune (e sottolineiamo alcune) differenze possono trovare parziale (e sottolineiamo parziale) risposta nei diversi livelli di costo della vita che li caratterizzano, nemmeno questa argomentazione può essere sollevata nell’istante in cui si rimane all’interno di un medesimo Paese e, in relazione ad esso, si constata l’esistenza di stipendi del settore privato abbondantemente sotto la media e stipendi per le posizioni apicali del settore pubblico abbondantemente sopra la media.
Quanti sono, nel settore privato di un Paese con livelli remunerativi sotto la media, i manager, i dirigenti e i liberi professionisti che guadagnano più di 300mila euro all’anno e per di più in modo stabile per molti anni consecutivi?
Ha senso che, in un Paese del genere, le cui difficoltà sono peraltro riconducibili proprio alla tenuta dei conti pubblici, dirigenti di Pubbliche Amministrazioni, componenti di authority, direttori di agenzie, amministratori di società interamente partecipate dallo Stato, da Regioni o enti locali e operanti in regime monopolistico di concessione, percepiscano dalla collettività remunerazioni ampiamente superiori, o magari più remunerazioni inferiori a fronte di una pluralità di incarichi che, cumulandosi tra loro, portano al medesimo risultato?
Se tutto questo fosse solo un’ingiustizia sociale, potremmo serenamente indignarci per una o due settimane e poi lasciare tutto come sta. Non possiamo però permettercelo perché, invece, siamo di fronte a una delle ragioni che stanno alla base del processo d’involuzione che sta portando i cittadini di questo Paese a rischiare seriamente di passare dalla dieta alla fame con la stessa velocità con cui, decenni addietro, passarono dalla fame alla dieta.
Un Paese in cui fare carriera nel pubblico impiego o nel parastato è, in termini probabilistici, economicamente più conveniente che fare carriera in un’azienda privata o avviare una propria attività professionale autonoma, è un Paese destinato in partenza al fallimento produttivo e alla corruzione dilagante.
Sarebbe vero anche in un contesto di massima trasparenza amministrativa; figuriamoci in un contesto di opacità spesso imbarazzante.
L’evasione dei sudditi “interessa” più degli stipendi dei sovrani
Servire le istituzioni comporta un riconoscimento sociale che trae le proprie premesse proprio dalla scelta di campo fatta da chi, evidentemente, preferisce impegnarsi nel pubblico, invece che inseguire nel privato guadagni più lucrosi di quelli che, a parità di professionalità, può ottenere da servitore dello Stato.
Abbinare riconoscimento sociale del proprio ruolo pubblico a remunerazioni da settore privato significa gettare le basi per creare un autentico cortocircuito valoriale.
Un tetto di 300mila euro annui per i grand commis di Stato è ben lungi dal rappresentare una mossa viziata da populismo pauperistico, tantopiù in un Paese in cui, nel settore privato, 300mila euro annui rappresentano una somma superiore di oltre dieci volte il livello medio delle remunerazioni.
Chi ritiene che una simile somma non valorizzi adeguatamente la propria professionalità, nemmeno tenendo conto del riconoscimento sociale che, giustamente, si accompagna a certi incarichi svolti nell’interesse della collettività, è libero di andare a guadagnarseli nel settore privato quando meglio crede.
Se stessimo parlando dell’evasione fiscale dei sudditi, la norma sarebbe già in vigore da ieri, senza deroghe e senza bisogno di regolamenti attuativi destinati a perdersi nei meandri dei palazzi.
Il punto è che stiamo parlando degli stipendi dei sovrani.
Per ilpiùcattivo
“anche se il numero di corti in Italia era altissimo mentre all’estero, forse con l’esclusione di Francia e Germania”
E’ questo che fa la differenza: il numero elevatissimo di corti in competizione tra loro tra l’altro per avere i palazzi e le corti più belle. E’ ovvio che quei mestieri esistono in tutto il mondo e anche prima del 500 ma grazie a questo sistema di signorie si raggiungono livelli di qualità di cui l’economia italiana tuttora vive.
Sulle società libertarie… non mi sembra il post(o) giusto dove affrontare queste discussioni. Ho creato due blog appositi dove si può parlare di queste cose. Questo blog lasciamolo per cose più frivole 😉
Il padrone di casa sei tu e scegli liberamente gli argomenti… finisco qui!
Entrando nelle vicende storiche (mia grande passione, anche se il periodo non è tra quelli ove sia più ferrato) vorrei convenire che la richiesta (o domanda che dir si voglia) alimenta l’offerta. La questione relativa all’espansione artigiano-artistica del rinascimento è, probabilmente, al difuori delle mie competenze ed argomento immagino assai vasto. Quello che mi piacerebbe immaginare è che forse sia una compensazione (almeno parziale) del non aver avuto uno stato nazionale il “rifiorir” delle arti.
Temo però di esagerare e che altresì lettori più ferrati possano contribuire in modo più consono. Quello che però non condivido è la questione della “competizione” quale elemento caratterizzante. Oppure lo è trascinato al modo “prezzemolino”. Potremo dire che anche la moda sia competizione, e persino la musica, però se è ovunque non è èiù caratterizzante.
Mi sia infine concesso un breve inciso al mio amico lector:
Caro Lector riporti:
“Un Paese in cui fare carriera nel pubblico impiego o nel parastato è, in termini probabilistici, economicamente più conveniente che fare carriera in un’azienda privata o avviare una propria attività professionale autonoma, è un Paese destinato in partenza al fallimento produttivo e alla corruzione dilagante.”
E’ un’affermazione forte ed intrigante. Mi sembra però cheh sia sostenuta soltanto da prove a posteriori inquinate dai mali italiani che poi, come mi sembra di capire fosse il tuo aggancio, ne sarebbero la caratteristica. Il dramma italiano, per come lo colgo, non è neanche alla fine la retribuzione stessa, ma la perversione per cui si determina che la scelta di dove esercitare l’ “alta professione” venga determinata più da vincoli economici comunque statosferici che da uno spirito di servizio alla collettività. O almeno dalla passione e competenza che in alcuni casi sembra essere indipendente dal “settore”. Forse un sano ritorno allo spirito artigiano-artistico del rinascimento potrebbe aiutarci a ridare giuste dimensioni alle problematiche ed individuare le giuste soluzioni.
Se dovessi immaginare che un “grande manager” possa destinare il proprio “grandioso operato” ad un settore A piuttosto che B perché PROBABILISTICAMENTE riuscirà ad acquistare il suo quattordicesimo appartamento a NewYork di 180mq invece che di 90, mi intristisce e mi lascia immaginare che anche questo che dovrebbe essere un grand’uono sia pilotato da quelle che un gtande definiva quisquillie.
Un Sorriso
“Se dovessi immaginare che un “grande manager” possa destinare il proprio “grandioso operato” ad un settore A piuttosto che B perché PROBABILISTICAMENTE riuscirà ad acquistare il suo quattordicesimo appartamento a NewYork di 180mq invece che di 90, mi intristisce e mi lascia immaginare che anche questo che dovrebbe essere un grand’uono sia pilotato da quelle che un gtande definiva quisquillie.”
Se hai qualche contatto un po’ più approfondito con quelli che nell’immaginario collettivo sono di solito identificati come “grandi manager”, probabilmente ti sarai accortoa anche tu che – gratta, gratta – l’unico vero criterio che guida le loro scelte è “l’argent” (come si dice? C’est l’argent qui fait la guerre ).
“Quello che però non condivido è la questione della “competizione” quale elemento caratterizzante. Oppure lo è trascinato al modo “prezzemolino”. Potremo dire che anche la moda sia competizione, e persino la musica, però se è ovunque non è èiù caratterizzante.”
Quello che intedevo dire è che i vari principi d’Italia tentavano di avere i migliori artisti e/o pensatori-inventori nelle loro corti e questo alimentava un mercato interno tutto italiano poi esportato anche all’estero: gli artisti italiani andavano poi in europa e in russia a costruire o dipingere i palazzi degli altri monarchi. Questo vale per gli artisti così come per cuochi, pasticceri e sarti ecc.
p.s.
per quanto riguarda la mia richiesta di spostare gli argomenti libertari sugli altri blog: sto impegnando molto tempo e energie per gli alti due siti e non vorrei che le discussioni su quelle cose si facessero qui come è successo in passato quando ho linkato da qua verso gli altri blog e la gente ha commentato qua. 😉
Notevole post, che spiega il motivo per cui una laurea tecnico-ingegneristica è carta straccia, mentre un rimestatore di pentole o venditore di borsette made in china in spocchiosissime boutiques è visto come una divinità.
Guest
In merito al post, io avrei un’altra teoria. In barba al duce e alle sue velleità di ricostruire l’impero che fu di Roma, a causa proprio dell’enorme afflusso di schiavi che conseguì alle conquiste dei romani, la popolazione italica originaria andò via via scomparendo dalla penisola, per lasciare il posto a generazioni di schiavi e di discendenti di schiavi. Nel tempo – e credo che l’assunto sia confortato da studi piuttosto seri – delle popolazioni originarie (i fieri popoli latini o paleo-italici) rimase ben poca cosa, soppiantata dall’elemento straniero, reso dai conquistatori romani prevalentemente di condizione servile. Questo dovette, suo malgrado, imparare a compiacere i propri padroni con atteggiamenti ossequiosi, cui si accompagnava spesso una furbizia mediocre, intesa ad assicurarsi col piccolo furto o l’ignominia i miseri mezzi di sopravvivenza per sè e per la propria progenie. Tutti questi caratteri sono ben rappresentati dalle maschere più popolari della Commedia dell’arte (Pulcinella, Arlecchino, Brighella, ecc.) che, a loro volta, trovano le proprie radici nelle commedie e nei personaggi plautiani e di altri autori romani.
Il nuovo cittadino peninsulare dovette, nei secoli, convivere sempre con nuovi padroni, fossero essi i Longobardi, i Goti, i Franchi, gli Spagnuoli, i Francesi, gli Austriaci. E dunque, perfezionò, nei secoli, l’arte di compiacere, di servire, di imbrogliare, e imparò a non essere mai orgoglioso per non irritare i suoi signori. Apprese, come ogni bravo servo, ad essere forte con i deboli e debole con i forti e a vivere alla giornata, metendo assieme il pasto con la cena. Mentre altre popolazioni avevano sostanzialmente mantenuto nei secoli la propria identità (germani, franchi, normanni, sassoni, celti) senza o con relativamente poca miscellanea, l’italiano costituì il prodotto d’un rimescolamento continuo di popoli, razze e culture. Da qui anche la sua scarsa affezione verso quello che altrove può definirsi sentimento o orgoglio
nazionale e tutto ciò che ne consegue e che è quotidianamente davanti ai nostri occhi.
Ditemi che sbaglio.
No Lector, non sbagli.
Già il proverbio “franza o spagna…” la dice lunga sulla moralità e integrità degli italiani. Oggi ci sono adolescenti che si prostituiscono per una ricarica telefonica di pochi spiccioli.
I padri chiamano le figlie (da intercettazioni telefoniche) per sapere se si sono finalmente accoppiate con questo o quell´altro personaggio influente in modo da averne qualche vantaggio.
In sintesi: un popolo di merda, da cui mi dissocio.
Guest
Caro LECTOR :
Sbagli 😉
… o meglio, esalti una delle componenti del “fare italico” che di certo meno apprezzo.
Il concetto di appartenenza mi ha sempre ripugnato (di certo un po’ di gene “schiavo” lo devo avere anch’io) ma la tua analisi mi sembra fin troppo facile, per essere vera.
In soldoni la potrei riassume come “filtro del peggio” ogni passata soltanto il peggio rimane.
Tutto ciò mi sembra però poco plausibile (anche e sopratutto darwinisticamente).
Però mi riservo di cambiare idea 😉 e flettermi al nuovo padrone se modificando alcuni aspetti magari riusciamo a definire in quale modo ciò possa essere “vantaggioso” solo in Italia e non in altre realtà che invece sarebbero virtuose.
Un Sorriso
@fabristol : TROOOOPPO Seri ? Dobbiamo cambiare blog?
E’ un’ovvia semplificazione, il cui intento è solo quello di muovere un popolo ad essere diverso da come appare. Sono discorsi che, credo, facciamo tutti con una pietra sul cuore, compreso il padrone di casa, perché in realtà non vorremmo mai farli. L’Italia è uno dei più bei paesi del mondo, forse il più bello, ed è ingiusto che troppi italiani debbano andare a vivere e lavorare all’estero, solo perché ce ne sono troppi che parassitano i propri connazionali, impedendo ai più di poter esplicare le proprie capacità e le proprie lecite aspirazioni. Questo stato di cose non può continuare così, dobbiamop prenderne coscienza tutti!
Con simpatia 😉