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Una modesta proposta

Parto da questo bellissimo articolo di Guia Soncini su 24ilmagazine del Sole24Ore, copiandone anche il titolo, per riallacciarmi a quello che dicevo sul post Legioni di imbecilli di qualche settimana fa. Guia Soncini riesce in poche righe – che per gli standard internettiani odierni pare un Guerra e Pace e che non leggerà nessuno- a descrivere l’attuale (imbarazzante) situazione in cui si trova l’umanità: per la prima volta gli esseri umani possono accedere all’intero scibile umano ma decidono di non farlo. Facebook è il loro unico portale alla conoscenza umana (gateway drug direbbero i proibizionisti) e sono incapaci di “cercare” la conoscenza. La conoscenza, l’informazione è lì per tutti da prendere ma nessuno la cerca. La situazione è questa: pensate ad una persona negli anni 80 a cui gli si chieda il significato di un termine sconosciuto e gli si dia una enciclopedia. Questa persona prenderebbe l’enciclopedia e la sfoglierebbe fino ad arrivare al termine che non conosceva. Oggi nel 2017 le persone hanno a disposizione vasti corridoi, dove su infiniti scaffali stanno infiniti tomi enciclopedici – una Biblioteca di Babele di cui Borges sarebbe fiero. E non devono neppure fare fatica ad andare dentro questa biblioteca, ce l’hanno sempre nella propria tasca e possono accedervi in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, dalla propria camera da letto alla montagna, dal deserto al mare – io avevo accesso ad internet nel Serengeti mentre guardavo leoni e giraffe e nelle foreste della Tailandia mentre stavo sopra un elefante, roba da matti. E non devono neppure faticare a cercare questa informazione perché basta usare il bibliotecario più efficiente della storia, Google, per cercare qualsiasi cosa. Ma la gente DECIDE di non farlo. Guia Soncini dice perché è gratis per il fatto che ciò che è gratis non ha valore. Forse, in parte, non saprei, però usando il rasoio di Occam direi che più che altro si tratta di pigrizia. Estrema pigrizia. Comportamento gregario. Istinto ovino di avere qualcun altro che ti dica qualcosa che tu voglia sentire. L’uomo non cerca la verità, vuole solo la conferma della verità che si è già costruito dentro di sé. Ed ecco che i social ti danno questa sicurezza: ti fanno vedere solo quello che vuoi vedere, rafforzano i tuoi preconcetti. Le legioni di imbecilli – tanto qui non si offenderà nessuno perché gli imbecilli si sono già fermati alle prime righe di questo lungo post dato il loro attention span limitato al titolo e alle prime righe – non vogliono informarsi nonostante lo possano fare.

Spesso mi sento chiedere da alcuni di questi esemplari: “Ma mi arrivano certe notizie (99% fake news su immigrati) su Uozzap da fare rabbrividire. Ma sarà vero?” In quei momenti -anche se mostro tanta flemma mentre tiro fuori la Biblioteca di Babele che ho nella tasca e cerco su Google per dirgli che “no, vedi è una bufala ed è corroborata da vari link bla bla- mi sale il sangue al cervello e mi cadono le braccia. Nella mia mente non esiste neppure una situazione del genere: se ho il dubbio di trovarmi di fronte ad una bufala immediatamente la verifico su Google. Ma gli imbecilli non sanno usare un motore di ricerca, tanto che Google ha dovuto cambiare anni fa il modo in cui fa le ricerche: mentre prima bastava scrivere tre-quattro parole per trovare corrispondente frase – tipo se un adolescente vuole sapere come si possa curare la pizza di brufoli che si trova in faccia un tempo poteva scrivere ‘brufoli viso curare” e aveva migliaia di risultati tra cui scegliere – ora Google funziona con domande sceme tipo “xke’ o i brufoli in faccia?” oppure “kome faccio a eliminare i cosi rossi” e funziona! Sapeste i termini che la gente scrive su Google quando arriva sul mio blog, brividi lungo la schiena. E Google lo ha fatto per venire incontro all’imbecillità di queste legioni senza speranza. Il fenomeno delle fake news esiste a causa di queste persone e del loro comportamento. Gente che legge il solo titolo e moltiplica n volte la notizia sui media senza neanche aver letto i primi paragrafi e perfino senza essere in grado di capirne il contenuto come è tipico degli analfabeti di ritorno funzionali. A furia di like, retweet e copia-incolla (pardon copia-incolla lo sanno usare in pochi ormai) e di “Perché non ho anche io diritto alla mia opinione?” tutti si spacciano virologi, geologi, climatologi, astrofisici, costituzionalisti e ovviamente allenatori.

Ora, se siete arrivati fino a qui rappresentate lo 0,1% della popolazione ne converrete con me che questa situazione non è senza conseguenze perché elezioni, sondaggi, referendum, sassaiole, impiccaggioni, proteste, dipendono dalla diffusione delle notizie. E se le notizie sono false e vengono moltiplicate senza verifica ma soprattutto se i testi, perfino quelli elementari, non vengono compresi è la fine della comunicazione, la tomba della diatriba politica, l’insignificanza dei punti di vista oggettivi. Soncini propone di fare pagare internet e le cose dice lei miglioreranno ma a mio parere il problema non è l’ignoranza per se stessa, che non andrà mai via sia chiaro, ma le conseguenze di questa: la mia modesta proposta è far pagare una cifra simbolica per votare alle elezioni o ai referendum. Son sicuro che una cifra accessibile a tutti (per far contenti i sinistrorsi) come 20 o 30 euro manterrà fuori dalle urne il 90% degli imbecilli. Chi, per dirla come Soncini, infatti pagherebbe per un voto che prima era gratis e quindi senza valore? Chi non dà valore a se stesso e per la cura della propria ignoranza come potrebbe dare valore ad un voto?

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Darwinism in the making

L’ironia di tutta questa isteria collettiva sui vaccini sta nel fatto che grazie ai vaccini che si sono presi da bambini questi idioti possono protestare fino all’eta’ adulta.

Photo mash-ups di Fabristol

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Su Poletti e i cervelli in fuga

4030378636Non ho parole, se non quelle del registro volgare, per commentare le parole del ministro Poletti sugli emigrati italiani all’estero. E però, da bravo nemico del dualismo nero-bianco/buoni-cattivi, non posso anche non commentare sulla reazione a volte scomposta dell’altra parte. Dalla mia esperienza di emigrato in due diversi paesi per 11 anni (super cervello in fuga si direbbe) a me pare che la figura del giovane laureato che fugge all’estero debba essere ridimensionata. Si è creato un mito da qualche anno a questa parte di una figura umana eroica che sogna di diventare premio Nobel ma a cui viene negato questo diritto da un sistema avverso e maligno. Vorrei sfatare il mito dell’idealista cercatore di glorie accademiche una volta per tutte. Chi va all’estero lo fa per milioni di motivi, non ultimo quello di esplorare il mondo, semplicemente. Lungi dall’essere un eroe prometeico moderno l’emigrato laureato italiano è frutto non solo di un sistema maligno italico che esiste (ci mancherebbe) ma della naturale propensione degli esseri umani ad esplorare il mondo in un’era che ha fatto dell’apertura delle frontiere un pilastro della propria essenza. Parlo ovviamente della globalizzazione. A me pare che senza la globalizzazione non avremmo avuto alcuna fuga dei cervelli. Prova ne è del fatto che ci sono centinaia di migliaia di britannici (per fare un esempio a me vicino) che studiano all’estero nonostante qui in UK ci siano centinaia di posizioni da occupare nei loro settori di competenza. Ed è proprio grazie a questi cervelli in fuga (qui in UK li chiamano expats, con una connotazione fortemente positiva rispetto al termine emigrati da bravi razzisti) che si sono liberate tantissime posizioni nelle università e compagnie britanniche per gli italiani. E la stessa cosa vale per centinaia di migliaia di tedeschi, scandinavi ecc. Questo dei cervelli in fuga insomma è un fenomeno globale ma che in Italia ha assunto connotati ideologici nati dal fatto che nella psiche nazionale esiste il mito dell’italiano genio che combatte contro il sistema (non passa giorno che i giornali italiani non ci sbattano in prima pagina scoperte di ricercatori italiani all’estero, fenomeno giornalistico e culturale tutto italiano), unito all’altro mito duro a morire per cui il sistema scolastico italiano sia uno dei migliori al mondo. Forse se accettassimo che l’emigrazione di persone istruite sia la normalità di questo mondo globale e non un problema, dico forse, riusciremo a levarci di dosso questi strati ideologici dall’una e dall’altra parte che contaminano il dialogo politico.

Mi volete dire quindi che se il sistema italiano funzionasse alla perfezione non ci sarebbe emigrazione? E che razza di società avremmo a quel punto? Le uniche società dove non esiste emigrazione sono quelle chiuse dove i governi la bloccano come Cuba o Nord Corea. L’emigrazione è fisiologica ed è sempre esistita, specialmente nel caso di persone altamente istruite. Il proprio paese è un paradiso per i semplici ma diventa una prigione per chi ha una predisposizione naturale all’acquisizione di conoscenza.

Ma fatemi dire anche un’altra cosa: è ovvio che il sistema italiano non sia in grado di mantenere questi “cervelli” ma è anche vero che c’è qualche altra cosa che non funziona, ovvero il sistema domanda-offerta lavoro è completamente sballato. Continuiamo a sfornare decine di migliaia di laureati in discipline per cui non c’è lavoro e pretendiamo che lo Stato crei il lavoro per quelle discipline. Vi dico un segreto: in realtà il sistema funziona al contrario. E questo nasce dall’atavica idea per cui non si è nessuno se non si ha una laurea, il pezzo di carta che le famiglie (non tanto i laureandi) possono sventolare in faccia a parenti e amici. Mentalità agropastorale per cui se tuo figlio non è almeno dottore, ingegnere o avvocato ha fallito nella vita.  Non dimentichiamoci che molti dei genitori della generazione chiamata “millennials” sono nati proprio nel dopoguerra, ovvero in quello spartiacque tra società agropastorale e industriale, tra provincia e città. Sono loro che hanno spinto e spingono i propri figli a laurearsi e a inseguire il sogno del pezzo di carta. Il riscatto sociale della generazione del boom economico passa attraverso il sacrificio scolastico dei figli. Che egoismo.

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Lo scandaloso stato di abbandono del Museo Archeologico di Cagliari

0081887975567Quando uno dei relatori di una recente conferenza sui giganti di Mont’e Prama a Cagliari (sui giganti ne parlerò più estensivamente nei prossimi giorni) ha raccontato di un episodio in cui un non sardo si meravigliava dell’esistenza della cultura nuragica la platea ha mugugnato in segno di indignazione. Quante volte ho visto l’indignazione sul viso del sardo che con quella smorfia bacchetta il resto del mondo per l’ignoranza sul periodo nuragico. Come può la gente non sapere dell’isola delle 7000 torri di pietra? Come può la storiografia far finta che qui in questa terra in mezzo al Mediterraneo un popolo “fiero e combattivo” viveva e costruiva una civiltà ben 700 anni prima della fondazione di Roma? Un complotto ordito dal continente, evidentemente. Forse io in quella platea sono stato l’unico a non essermi sorpreso. Al contrario tra me e me mi chiedevo come una persona che viene fuori dalla Sardegna (e non sa neppure che esista nelle cartine geografiche) possa sapere della civiltà nuragica. Come si può infatti pretendere che un “continentale” sappia cose che neppure il sardo conosce? Nessuno in quella sala (a parte l’archeologo, ma avrei i miei dubbi anche su questo) avrebbe saputo rispondere correttamente a domande basilari che riguardano il periodo storico in cui la civiltà nuragica si sviluppò, il rapporto con gli altri popoli del Meditarraneo o le divinità che veneravano (giusto per menzionare quelle più facili). In un’isola di opposti estremismi come la Sardegna l’ignoranza del proprio posto nella storia è la norma. Il sardo non sa nulla di se stesso, della sua lingua, della sua cultura. Li adotta e ne va fiero per motivi nazionalistici ma non ne capisce appieno l’importanza e il perché. Il sardo avrebbe potuto ereditare tratti somatici balcanici, parlare una lingua turkmena, adorare divinità indù ma questo non avrebbe fatto alcuna differenza. Li avrebbe adottati comunque senza capire il perché di quel mix così inusuale in mezzo al Mediterraneo. Come ci si può stupire allora dello straniero che non conosce la storia della Sardegna?

Mi dovete scusare per il lungo preambolo “antropologico”, se mi passate il termine, ma mi serviva per introdurre emotivamente (e per caricare il sottoscritto emotivamente) un tema, ahimè, serissimo: il vergognoso stato dell’archeologia isolana, dei suoi musei e delle esibizioni museali. Lo scandalo in particolare riguarda il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. Scandaloso perché? Perché dovrebbe essere un gioiello museale da far invidia al mondo per le sue ricchezze e i suoi manufatti ma si trova in condizioni disastrate complice l’indifferenza del mondo accademico isolano e nazionale, la stampa e la politica. Non mi aspetto che un politico o un giornalista riescano a cogliere i problemi della sfera prettamente archeologica ma almeno si rendano conto delle mancanze organizzative. I problemi infatti sono due: il primo riguarda la struttura stessa e i (non) servizi erogati; il secondo le scelte espositive, le imprecisioni e l’anacronismo delle esposizioni soprattutto dopo alcune recenti scoperte. Le due problematiche non sono poi così slegate tra loro visto che sono sintomo di una generale ignoranza di chi prende le decisioni dall’alto in enti pubblici. Un’ignoranza collegata al preambolo di prima, ovvero il sardo non ha alcuna idea di cosa ha a che fare quando si trova in mano la sua storia anche sotto forma di manufatti archeologici.

montiPrama-307019261Primo, struttura e servizi: dopo anni di onorato servizio in uno dei palazzi storici più belli di Castello (ora in rovina e abbandonato) il museo archeologico fu spostato all’interno dell’ex-Regio Arsenale per costituire insieme al MAS e alla Pinacoteca [*] un polo museale unico. Una bella idea non c’è dubbio, ma progettata malissimo. Il Museo archeologico infatti è incastonato tra le mura del bastione nord e si dipana tra scale, scalette tra mille piani, sottopiani e mezzanine che rendono il percorso… impercorribile. Infatti non esiste un inizio e una fine obbligatori ma un labirinto senza senso che forza il visitatore a continui giri su stesso, retromarce e dubbi. I visitatori non sanno dove andare, si chiedono “siamo già passati qui?”, “Ah, questo non l’avevo ancora visto!”. Perfino il sottoscritto che l’ha visitato più volte ha dovuto scervellarsi per trovare le sale e i manufatti che gli interessavano.

Sfortunatamente da questo punto di vista si può fare ben poco anche se una riorganizzazione interna delle sale e degli accessi più logica potrebbe aiutare. Vediamo i (non) servizi. Arriviamo alla biglietteria e un anziano custode che parlava solo italiano ci informa che non esiste una guida (questa infatti deve essere prenotata per gruppi grandi). Questo nonostante sia stata appena allestita una delle mostre archeologiche più attese del decennio a Cagliari e di importanza internazionale: i giganti di Mont’e Prama. Al piccolo ma efficiente museo di Cabras, che ospita metà dei 38 giganti, la guida c’era e il percorso era ottimo e ben organizzato. Vabbé, farò io da guida ai miei ospiti visto che mi appassiona la storia fenicia e quella nuragica. Da qui in poi non abbiamo visto un solo addetto del museo. Nessuno, neppure i soliti guardiani annoiati che si leggono il giornale agli angoli delle sale. Chiunque avrebbe potuto rubare, pasticciare, vandalizzare i manufatti senza che alcuno se ne fosse accorto. Io di telecamere e di sistemi di sicurezza non ne ho visto (ma mi potrei sbagliare).

L’inglese, questa lingua sconosciuta, è inesistente. Non una singola targa è stata tradotta e non esistono descrizioni in lingue diversa da quella italiana. Tutta roba scritta negli anni 80 e inizio anni 90 (lo capisci dal font e dal colorito giallastro) in linguaggio supertecnico spesso incomprensibile a un non addetto ai lavori. Questo fantasma che aleggia nelle sale, l’inglese, è così evanescente che nel libro dei commenti/firme all’uscita i poveri turisti internazionali si chiedevano come fosse possibile che nel 2014 un museo di fama internazionale non avesse la traduzione in inglese. Un commento descriveva alla perfezione la situazione: “I didn’t understand a single thing.”. E lo capisci anche dallo sguardo perso nel vuoto dei visitatori stranieri che passavano da una sala all’altra senza alcun input: vasi, cocci, bronzi, statue. Che significato possono avere senza un contesto, senza una storia dietro? Queste persone dopo essere uscite dal museo non avranno capito nulla e non si porteranno nulla dietro. Chi erano i nuragici? Chi erano i fenici?ThumbServlet-797021170

Bagni? Se non avessi visto una porticina aperta fuori nel cortile (!) da cui si intravedeva un WC non avrei mai visto i bagni, e come me le centinaia di turisti che lo visitano. Pubblicazioni? Cartoline? Idee regalo? Monografie? I musei cadono a pezzi, non abbiamo soldi per i dipendenti ma a nessuno viene in mente di fare uno shop come in tutti i musei del pianeta. Chi volesse avere più informazioni riguardo ai giganti rimarrà deluso. Le cose le potrete sapere dai blog di pochi appassionati su internet senza alcun timbro di ufficialità (poi ci si lamenta degli pseudoarcheologi che tirano fuori Atlantide). Brochure? Per carità! Secondo il sovrintendente in diretta TV alla RAI ci sono stati problemi tecnici nella stampa. Eh già, il toner da cambiare è un problema così difficile da affrontare.

Il secondo problema, più grave, riguarda i curatori del museo. Il museo non è diviso in periodi storici ma in suddivisioni territoriali della Sardegna. E così ti ritrovi nella stessa vetrina manufatti prenuragici, nuragici, fenici, romani e via dicendo senza alcun nesso logico. Questa scellerata scelta organizzativa rende la mostra confusionaria e completamente inutile. Che senso ha associare una freccia prenuragica di bronzo con la dea Tanit e una moneta romana solo perché si trovavano tutti e tre nel territorio del Sarrabus? Il museo è anche, e soprattutto, un luogo di didattica e non si può prescindere da una esposizione che rispetti la logica temporale. Fai un piano con i manufatti nuragici, una con quelli fenici, una con quelli romani. La maggior parte delle persone non ha gli strumenti per capire la differenza tra le tre, soprattutto un turista che non sa nulla della storia del Mediterraneo e dell’isola. I turisti passavano davanti alle vetrine – alcune semivuote! – senza comprendere davanti a cosa stavano camminando. In aclune vetrine al posto di un manufatto facevano bella mostra fogliettini scritti a mano (vedi foto) con su scritto frasi del tipo “Da Pani Loriga sono stati prelevati per foto, 13.0.11.”. Li stanno fotografando da 3 anni. Sicuramente quello era l’unico documento “ufficiale” che attestava il prestito, semmai ritornerà al suo posto. Incredibile.IMG_20140729_171130-588866901

Per fare un elenco dei manufatti più importanti al museo relegati a vetrine di secondo piano, perfino in angoli seminascosti non basterebbero le pagine di questo post ma vi basti sapere che al Museo di Cagliari esiste la Stele di Nora, il documento scritto più antico del Mediterraneo occidentale e uno dei pochi fenici rinvenuti a ovest di Tiro. Non solo ma il più antico documento dove la parola Sardegna in fenicio SRDN, sia mai stata scritta. Ebbene questa stele si trova in un angolo tra due vetrine senza illuminazione, e con un piccolo poster che ne descrive un sunto della sua storia seminascosto dalla stele stessa. Non esiste neppure una traduzione della stele a disposizione nonostante negli ultimi 30 anni siano state avanzate più interpretazioni.

Vogliamo parlare della maschera ghignante (prima foto in alto), simbolo della Sardegna fenicia? Un pezzo, forse, di iconografia assiro-babilonese acquisita dai fenici e che alcuni studiosi pensano sia all’origine del detto “sorriso sardonico”? Questa meravigliosa maschera, uno dei simboli del museo è relegata all’interno di una vetrina semivuota e con una illuminazione penosa e con uno sfondo fatto di compensato. La grande collezione di tophet, seconda solo a quella di Sant’Antioco, sculture di Tanit, due enormi statue di Bes, la collana fenicia in vetro colorato che vedete nella foto del post, gli ori e le pietre preziose egizie di importazione sempre fenicia: tutto questo senza alcun risalto, senza una corretta esposizione (e forse neppure un allarme). Tralasciando i giganti di cui parlerò un altro giorno, ci sono reperti nuragici di una importanza eccezionale (tutti trafugati ai musei locali ma forse era meglio lasciarli ai piccoli musei dei paesi se questo è lo stato in cui devono essere esposti). I bronzetti nuragici, la più grande collezione di bronzetti al mondo, sono ammucchiati alla bell’e meglio su un paio di vetrine ma poiché sono disposti in gruppi, non in file, alcuni nascondono altri e il fatto che siano esposti a livello più basso non aiuta di certo l’osservazione dei particolari. Tra questi l’eroe dai quattro occhi e quattro braccia (qui in foto) è sicuramente il più importante ma di nuovo, invece di essere esposto da solo in primo piano è ammucchiato insieme a tutti gli altri.IMG_20140729_171529417159348

Potrei continuare all’infinito (che dire delle meravigliose statue votive in terracotta con serpente avvolto al corpo del tempio di Esculapio, o le decine di mani in terracotta votive?) ma vorrei che la gente ci andasse al museo di Cagliari per essere coscienti dello scandalo frutto di decisioni mediocri di persone mediocri (e scrivetelo sul libro dei commenti!). E visto che siete lì date uno sguardo verso l’alto tra le varie scalinate e vedrete decine di casse e sculture in pietra ammassate in un piano rialzato. Forse è uno di quei magazzini dove i giganti di Mont’e Prama sono stati buttati per 40 anni senza che nessuno sapesse di questo tesoro.

[*] A dicembre durante la Notte dei Musei entrai a vedere la Pinacoteca. Nonostante fuori ci fossero 15 gradi (l’inverno sardo è notoriamente rigido e miete vittime nelle migliaia) quando vi entrai una vampata di calore e di umidità mi investì. Quando commentai con il bigliettaio che non mi sembrava opportuno tenere temperature e umidità così elevati con tavole e trittici del ‘400 questi fece spallucce dicendo che lui aveva freddo.

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Complottismi voluniosi

In questa patetica lettera a Repubblica Massimo Marchiori scrive le ragioni per cui ha lasciato Volunia. In realtà il 99% della lunga lettera sono giustificazioni scaricabarile per dire che per  tutti, ma proprio tutti gli errori del progetto lui non aveva alcuna responsabilità. Per mesi acclamato come il Bill Gates italiano, il padovano ultratech che aveva rivoluzionato il mondo del web, Volunia la sua creatura Made in Italy, elogi e critiche ecc., e ora scopriamo con questa lettera che lui non aveva a che fare con alcunché in Volunia. Lui riceveva solo ordini dall’alto. E’ stato sempre colpa di qualcun altro, l’innominabile Mr X, perché lui si opponeva a tutto fin dall’inizio ma poi doveva dire di sì a malincuore. Il cattivone Mr X lo costringeva a fare tutte quelle scelte orribili e impopolari che di fatto hanno affossato il suo meraviglioso progetto che ha ancora in mente ma che per complotti più grandi di lui non potrà mai essere realizzato.

Ahimé, io in questa lettera ci leggo solo un comportamento orribilmente italiano di non prendersi le responsabilità per i propri fallimenti. Mi dispiace ma se questo fantomatico amministratore era così tirannico Marchiori, a cui l’esperienza non manca, avrebbe dovuto dire di no. E invece, nella tradizione più disgustosa italiana, dalla università alla politica, dalla famiglia alla religione, ha abbassato il capo e ha ubbidito. Le potenzialità di un progetto poi non si giudicano dalle intenzioni (è fin dall’inizio del progetto che Marchiori dice che ha in mente qualcosa di eccezionale ma che non ci può dire) ma dai risultati. E dev’essere che chi ha finanziato Volunia di risultati -in denaro e in sponsor- ne ha visti pochi. Quindi è giustissimo che la testa di un manager del genere debba essere tagliata. Si fa così in un paese sano.

p.s.

oggi Marchiori mi sta ancora più antipatico non solo per i motivi che ho riportato qui mesi fa ma anche perché ho trovato questa foto (in alto all’inizio del post) dove rappresenta l’evoluzione dell’uomo in stile creazionista. Imperdonabile.

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Su due trasmissioni di successo britanniche

Inside the medieval mind è una serie della TV britannica che si concentra sul medioevo, non tanto dal punto di vista storico ma dal punto di vista psicologico. In ogni puntata viene descritto un comportamento medioevale da analizzare, oppure l’amore, la guerra ecc. L’ultima che ho visto mi ha molto colpito perché parlava del culto delle reliquie. Il presentatore ci spiegava che nel medioevo i santi dopo la morte venivano fatti a pezzi e quest’ultimi distribuiti, venduti, rubati in tutta Europa per il culto delle reliquie. Dita, capelli, sangue, teschi, mandibole, lembi di vestito qualsiasi cosa appartenuta al santo veniva venerata. Ne parlavano come se fosse la cosa più curiosa e aliena del mondo, come quando ci mettiamo a discettare dei sacrifici umani tra i Maya. Come se solo degli uomini semplici ed ignoranti del medioevo potessero credere che i superpoteri del santo potessero conservarsi nelle sue reliquie.

Che tristezza.

Mi sono reso conto che dal medioevo ad oggi in Italia non è cambiato assolutamente niente. La trasmissione l’avrebbero potuta chiamare Inside the italian mind e non avrebbero dovuto cambiare una singola scena o parola.

***

Meet the romans, invece presentata dalla reincarnazione di Maga Magò Mary Beard– la quintessenza dell’inglesità- ci porta a scoprire il mondo delle tombe e degli epitaffi romani. La cosa curiosa che mi ha fatto molto pensare – e che ho sempre saputo fin dal liceo ma non avevo ancora connesso con le pratiche odierne – è che i romani scrivevano nelle lapidi in prima persona, come se quelle parole le avesse scritte il morto subito dopo la morte, descrivendo la propria vita. Una sorta di sommario in forma di tweets sulla pietra per i posteri. Cose del tipo (inventato ora da me): “Proserpina: avevo le trecce bionde e spesso mi comportavo da discola ma alla fine ero una brava bambina. Non piangete ma brindate col vino alla vita. Il fuoco mi uccise, avevo 10 anni.”

E così via, con descrizioni anche minuziose delle vite dei defunti. E’ grazie a queste lapidi che sappiamo tantissimo anche delle persone comuni della Roma antica, dei loro mestieri e del modo in cui sono morti. Questo è in netto contrasto con le lapidi moderne in cui:

1) le iscrizioni sono in terza persona.

2) non riguardano la vita del morto ma ciò che gli aspetta in futuro.

3) santi e divinità vengono menzionati per intercedere con la salvezza dell’anima mentre nelle lapidi romane non vi è quasi mai traccia di menzioni di divinità.

4) non viene quasi mai menzionata la causa della morte. Nelle lapidi romane invece fa parte del canone.

Da tutto ciò la Maga Magò della trasmissione del futuro Meet the 2012 humans potrebbe pensare che:

1) la ricerca sulle lapidi dei cimiteri di quegli anni è inutile perché non ci dice niente della vita o della morte dei defunti.

2) gli umani del 2012 vivevano continuamente pensando alla difficoltà di raggiungere l’aldilà e l’unico modo per ottenere quel traguardo era attaccare una figurina di plastica con l’effige di un santo. Un po’ come i greci che mettevano una moneta in bocca al morto per pagare il passaggio sull’Acheronte. Ognuno ha i suoi metodi, un tempo si usavano le monete d’oro, oggi le figurine.

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Alcune considerazioni sulla legge sul rientro dei cervelli

La legge 30 dicembre 2010, n. 238 “Incentivi fiscali per il rientro dei lavoratori in Italia”, definita stupidamente come legge Rientro dei Cervelli (come se quelli all’estero fossero tutti dei geni che aspettano di prendere il Nobel; ci sono anche i deficienti qui ve lo assicuro), di qualche anno fa è stata accolta come la panacea che potesse calmierare o addirittura invertire il flusso migratorio verso l’estero di ricercatori e professionisti di alto livello. Si parla di 27000 persone all’anno ma i numeri sono sottostimati perché si basano sull’iscrizione all’AIRE. Una iscrizione che è sì obbligatoria ma che pochissimi fanno. Tra gli emigrati che conoscono io veramente pochi sono iscritti all’AIRE. Molti non sanno neppure cosa sia.

I risultati fino ad ora sono stati risibili anche perché, appunto, il fisco non aveva provveduto ad attrezzarsi a dovere. Ecco il perché della circolare dell’Agenzia delle Entrate di questi giorni. Tantissime persone quindi sono rimaste fregate. Personalmente delle centinaia di italiani all’estero che conosco, non so di nessuno che sia tornato in Italia grazie a questa legge. Infatti se chiedete a chiunque all’estero perché non vogliono tornare in Italia la risposta sarà sempre la stessa: il sistema. Puoi anche darmi pasti gratis e un auto blu ma se mi devo fare il fegato grosso come un melone con i soliti baronetti mafiosi, i colleghi gelosi pronti ad accoltellarti appena giri le spalle, la burocrazia fantozziana ecc. uno si fa due conti è rimane all’estero.

Ben vengano gli incentivi fiscali per dare un aiutino per chi torna ma sappiate bene che se uno torna in Italia e accede a questi sconti fiscali non lo fa per gli sconti fiscali in sé ma perché aveva già pianificato di tornare in Italia. Certo lo sconto fiscale aiuta psicologicamente e finanziarialmente visto che il costo di fare un trasloco internazionale (dopo anni e anni all’estero) non è indifferente. E’ come ricominciare un’altra vita, si diventa di nuovo emigrati. Ma mentre emigrare in UK o Germania è relativametne facile fiscalmente, logisticamente (per aprire un conto in banca ci si mette 5 minuti per dire) emigrare in Italia diventa un’impresa enorme.

Ed è preferibile lo sconto fiscale piuttosto che un incentivo in denaro, come si fa per incentivare altre cose come bonus bebé o bonus occupazione ecc., perché almeno non vengono utilizzati soldi pubblici e delle persone qualificate possono entrare nel mercato e contribuire alla ricerca o alle imprese del paese.

Ma rimane comunque sempre una discriminazione nei confronti di chi invece è rimasto in Italia, ingoiando bocconi amari per anni, spesso ricevendo salari da fame e vivendo ancora con i genitori. Cosa devono dire queste persone che sono rimaste? Lo Stato come al solito divide et impera, crea gruppi e li mette gli uni contro gli altri.

Detto questo, vi lascio con una proposta semiseria: visto che il problema non è risolvibile semplicemente riportando italiani con alta specializzazione ed educazione in Italia perché tanto dovranno sottostare alle regole marce del sistema Italia io consiglierei di dare incentivi fiscali per far andare all’estero a chi si trova in amministrazioni pubbliche, ai livelli alti di università, politica e burocrazia.

Insomma, per dirla utilizzando un linguaggio più tecnico ed evitando le demagogie, invece di far rientrare i cervelli perché non mandiamo via a calci in culo i coglioni?

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Cento metri fuori dall’Italia il paradiso (e Monti è un criminale)

Se il governo Monti fosse al suo posto per fare crescere l’economia farebbe semplicemente quello che si fa a cento metri dal confine italiano, in Svizzera: 40 giorni per aprire un’impresa e tasse al 25%. Crescita, nessuna disoccupazione, tasse bassissime. E’ lì da secoli il modello migliore per far crescere l’economia al di là delle Alpi ma tutti fanno spallucce. Grillo è un coglione ma una cosa l’ha detta giusta qualche settimana fa: vi vorrebbe una Norimberga. Peccato che metà degli italiani finirebbe impiccato.

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L’ipocrisia

E’ tanto bello che al Corriere abbiano aperto una discussione sulla sessualità dei disabili (sì ne hanno una) e dell’uso della prostituzione per risolvere la questione, nonostante lo stato chiuda un occhio. Fa molto giornale progressista, fa molto servizio crocerossina per le prostitute ma mi sa tanto che se fosse capitato qualcosa di diverso gli stessi giornalisti avrebbero titolato in modo diverso. Infatti cosa sarebbe successo se una ragazza disabile fosse stata accompagnata da un padre in un bordello dove c’erano solo gigolò? Sappiamo cosa avrebbe fatto lo stato, ovvero accusato il padre di sfruttamento della prostituzione, arrestato, ammanettato e posto alla pubblica gogna mediatica. Il gigolò sarebbe stato accusato di violenza sessuale e sappiamo cosa avrebbero scritto al “progressista” Corriere.

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10 motivi per andare all’estero

Copia-incollo un bellissimo post di Andima. Al contrario di quello che però scrive lui nel titolo io penso che siano 10 motivi PER andare all’estero. 😉

Periodicamente si torna a parlare di brain drain, per dichiarazioni discutibili di politici di turno o perché le statistiche vanno aggiornate e così le conclusioni spremute dai loro risultati. Andiamo allora controcorrente e proviamo a riportare un decalogo del perché andare all’estero potrebbe non essere la scelta ottimale:

1. La lingua. Altrove si parla un’altra lingua, che per quanto possiate parlare (o credere di parlare) bene, rimane comunque una lingua straniera. Se vi sentite pronti ad affrontare i primi colloqui o le prime avventure tra accenti maldestri e verbi mal coniugati, provate a pensarvi la prima settimana in un ospedale, perché qualcosa del genere può sempre succedere nelle coincidenze incaute della vita, e pensate a dover descrivere le parti del corpo che vi fanno male (quelle per cui non è facile risolvere tutto in un qui, , questa cosa) o i sintomi (vi brucia? vi preme? vi tira?). Certo oggi è tutto più facile, ma bisogna anche avere fortuna, siete pronti?
2. Lo shock culturale. Un altro paese è un altro paese, altri modi di fare, di essere, di vivere, e questi modi vi potrebbero sembrare tutti sbagliati, vittime dello shock culturale, quando si perdono i punti di riferimento e dopo un periodo estasiante da foglio bianco dovuto al cambio, vi potreste ritrovare in un umori grigi tra rifiuti e lamenti, rigettando il diverso che vi circonda all’estero. Ci vuole comprensione, autocritica e voglia di capire. Pronti?
3. Le reti sociali. E non quelle virtuali, ma di amicizie e conoscenze reali. In un paese straniero le reti sociali sono da ricostruire totalmente e se non si hanno già degli amici sul posto, non sempre è facilissimo crearsi un proprio gruppo, soprattutto con i locali, già impegnati nelle proprie reti sociali come voi lo sareste in patria, o con i colleghi, spesso non coetanei e magari restii a rapporti extra-lavorativi. Corsi di lingua, vita mondana, coincidenze, possono aiutare, con un po’ di fortuna, pazienza, voglia di conoscere. Siete pronti?
4. Il tuo paese, visto da fuori. Uscire e vedersi da fuori non è semplice e non sempre l’effetto fa piacere. Sgretolare convinzioni secolari, punti fermi figli di educazione nazionale o propaganda unilaterale, può lasciare un senso di smarrimento ma anche difesa, avendo l’impressione che un attacco, una critica o un commento non siano diretti al paese ma a voi. Ci saranno differenze tra il paese reale e quello percepito e non reagire sempre a spada tratta non è facile. Siete pronti a voler conoscere un altro paese, il vostro?
5. Gli stereotipi. Ritrovarsi a rappresentare l’Italia tutta, tu, in una sola persona, in conversazioni o rapporti con stranieri, significa anche avere una certa responsabilità, nel confermare o contraddire gli stereotipi con cui gli italiani sono visti dagli occhi altrui e diventare una finestra su un paese che attraverso voi non sarà sicuramente pizza, sole e mandolino, ma non sarà neanche quello reale, perché voi non siete l’Italia tutta né probabilmente la conoscete tutta, voi siete voi, solo che gli altri spesso non lo sanno e vi confondono con un italiano. Siete pronti anche voi a muovere la testa e non solo il corpo?
6. Il lamento. Potreste trasformarvi in un lamento continuo, perché il clima non è ideale, perché i trasporti non sono come immaginati, perché il lavoro è un compromesso, perché il cibo non vi piace, perché non c’è mamma a cucinarvi e perché fuori anche le piccole cose, quelle una volta etichettate come insignificanti, possono avere un peso nella bilancia quotidiana quando si rompono gli schemi e con essi le abitudini e bisogna ricostruire un po’ tutto. E se il lamento non viene da voi, potrebbe venire da vostri connazionali all’estero. Ci vuole resistenza, pazienza e serenità. Pronti?
7. I ritorni a casa. Tornando a casa ci sarà una voce che prima non esisteva nella testa, quella del confronto. Tutto sarà un confronto, nuovo, perché finalmente si ha un termine di paragone. I ritorni a casa, insomma, non saranno mai più gli stessi, rimettendo in discussione molto di quello che precedentemente rappresentava il vostro intorno abituale in un equilibrio oramai rotto. E le vacanze non saranno mai vacanze. Pronti a non sentirvi a vostro agio a casa?
8. I commenti. Diventare italiano all’estero significa anche portarsi dietro una certa lista di etichette, a cui bene o male ci si può abituare con risposte pronte o spallucce veloci. Ci sarà sempre il genio di turno a commentarvi come vigliacco, perché è facile partire e lasciare tutto, è facile criticare il proprio paese da fuori, perché (d’improvviso) non si conosce più il paese non vivendoci realmente o a denigrare il paese da cui venite ed una qualità di vita che non può, in nessun modo, essere superiore a quella italiana. E tante altre storielle che ritroverete puntualmente tra ritorni e chat. Sinceramente, chi ve lo fa fare?
9. Le mancanze. Ci sarà sempre quel momento, quello in cui manca una piazza, una panchina, il sorriso di un amico, la carezza della famiglia o il piatto della nonna, è il problema dell’emigrante, e con esso la voglia di ritornare, il rimorso di non aver fatto quello anziché questo. E ancora, ci sarà la mancanza di quel passato comune di voi verso gli altri e viceversa, quello che solo una cultura comune può costruire e che non troverete in amici stranieri e potrebbe portare rapporti sociali non più lontano di un certo limite. Ve la sentite?
10. Il limbo. Partire è un po’ morire, dicono, e infatti qualcosa muore mentre altro nasce. Partire significa perdere qualcosa della propria nazionalità e guadagnarne un’altra, di cosa, che non ha nazionalità, o le ha tutte. Diventare uno straniero ovunque può però avere effetti collaterali, come non sentir nessun luogo proprio, sentirsi a disagio nell’intorno natio o cadere nella voglia di voler cambiar luogo ogni anno, continuamente, alla ricerca di se stessi quando il signor Se stessi è con voi, basta solo fermarsi ed ascoltarlo. Sicuri di voler iniziare?

Detto questo, la felicità è soprattutto dove vivi. Appena (e se) potete però, fate la valigia e andate via, almeno per un po’, male non vi farà.

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