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La linea del cuscino che spacca l’Europa in due

Tra le varie linee che demarcano le culture europee tra nord e sud – pensiamo alla demarcazione burro-olio d’oliva o intolleranza lattosio tra paesi mediterranei e paesi oltrealpini- ne esiste anche un’altra meno conosciuta ma non per questo priva di valore antropologico: la demarcazione del(la forma del) cuscino. Superate le Alpi si incomincia ad usare il burro in maniera massiccia e l’olio d’oliva diminuisce, il latte si beve a litri senza intolleranze (i formaggi diventano sempre meno stagionati di conseguenza), il vino diminuisce e la birra aumenta, il protestantesimo aumenta (fino a diventare ateismo) e il cattolicesimo diminuisce, il volume della voce diminuisce… e i cuscini attraversano una trasformazione geometrica interessante. Da rettangolari diventano quadrati. Grandi quadrati, parliamo di 80×80 cm. Attraversano pure una trasformazione interna, ovvero perdono di consistenza e diventano semivuoti. Il motivo di questa trasformazione verra’ rivelato alla fine del post. Ora il “cuscino tedesco” come viene definito dagli stessi tedeschi si trova in Germania, Austria, molti cantoni dlela Svizzera e in alcuni paesi limitrofi ma in percentuali ridotte. P si sale al nord più e’ frequente e a questo punto mi sfugge la spiegazione di questo orientamento nordico. Sappiamo che per demarcazioni alimentari come olio, vino, latte ecc, c’entrano fattori ambientali (olio d’oliva e vino non possono essere coltivati efficentemente e il burro è più energetico per climi nordici) e genetici (intolleranza lattosio) ma per il cuscino non credo che esista una spiegazione del genere. Sembra invece che si tratti di una di quelle tradizioni irrazionali che alcuni popoli si trasmettono per dire a se stessi che sono unici e diversi dagli altri. Come il doppio rubinetto inglese. Inglesi e tedeschi mentono a se stessi per giustificare tali abominii della praticità adducendo vantaggi marginali e valori tradizionali risibili. I germanofoni dicono che è perfetto per le spalle perché, dicono convinti, sul cuscino ti ci devi appoggiare spalle, collo e testa. Se non ti piace semplicemente lo pieghi in due così diventa un doubledecker sandwich. Ed ecco il motivo per cui il cuscino tedesco è mezzo vuoto: per potersi trasformare in un cuscino normale 80×40 cm. Cioè molti tedeschi piegano il cuscino 80×80 cm in due per farlo diventare 80×40 cm. Invece di comprare direttamente uno 80×40 lo comprano 80×80 e ne tolgono metà contenuto. E tutto questo per una questione di abitudine patriottica difficile da eradicare.

A volte mi chiedo se questa linea Maginot del comfort sarebbe stata cambiata se la battaglia di Teutoburgo fosse stata vinta dalle truppe romane. In fondo è uno dei motivi per cui oggi possiamo parlare di Germania, protestantesimo e forse cuscini quadrati.

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I singhiozzi temporali argentini

Eccomi qua dopo un luuuuungo viaggio in Sud America -Argentina e Cile – ed ecco qua le mie impressioni su Buenos Aires, la prima città che ho visitato. Andare in giro per alcuni quartieri di Buenos Aires è un po’ come passeggiare per una città europea. L’architettura è italiana, spagnola, francese, a volte un po’ lusitana per certi particolari seminascosti, un giusto mix. In realtà pare più una città italiana tanti i nomi e le facce sono italiani. Qui si può trovare un po’ di tutto: dalla casalinga di Voghera al commenda di Milano, dal barbiere siciliano al tassista romano, dal commerciante genovese all’imprenditore veneto. La sensazione di passeggiare a Buenos Aires è alquanto strana. Il cervello ti dice che sei in Sud America, un posto esotico agli antipodi, ma è come trovarsi a casa. Quelle facce le conosci, quegli sguardi, quei gesti con le mani, il legame fenotipico che sottintende quello genetico. Stessa razza, stesso paese, una sensazione di appartenenza “razziale” indescrivibile, una sensazione che si può provare solo in un paese fatto di italiani ma non in Italia.

Ma che ci fa un’edicola (un’edicola italiana!) sotto ad un grattacielo in stile newyorkese? E quella FIAT Uno scassata affianco ad una Chrysler tutta nuova? E quel piccolo negozio di alimentari ad un boulevard sudamericano?

A volte le americhe si mischiano con l’Italia in un’amalgama che non ti aspetti. Come se qualcuno avesse preso pezzi d’Italia –mi immagino una storia alternativa in cui l’Italia fascista ha vinto la guerra e ha colonizzato una terra  nell’emisfero australe portando tutto ciò che di italico esiste; oppure l’Italia fascista ha perso la guerra ma gli ultimi fascisti vanno in esilio e rifondano il loro paese in Sud America (ucronie da sviluppare) -e li avesse mischiati, a volte male a volte bene, con l’essenza delle americhe. Una colonia italiana nell’emisfero australe.

Ma non è solo uno shock spaziale, la combinazione di due emisferi terrestri che dovrebbero essere appunto agli antipodi. E’ anche un’interferenza temporale, come quando i vecchi televisori a tubi catodici riuscivano a sovrapporre le immagini e i suoni di due canali diversi. Ma qui non basta un colpo al lato del televisore o una raddrizzata d’antenna a cambiare la sensazione aliena che provo. Dentro a FIAT Uno degli anni 90 ci sono guidatori che maneggiano l’iPhone 4, nella bottega gira una cassetta nel mangianastri mentre un ragazzo si ascolta l’ultima canzone sul suo iPod, nella metro uscita da un documentario sull’URSS pre-caduta muro di Berlino le persone vestono come nella Londra del 2012. Qualcosa non va, manca omogeneità, manca un filo logico, manca un continuum spazio-temporale che il mio cervello possa accettare. Qui in Argentina il tempo si è fermato per alcuni anni per poi riprendere il suo corso e ora cerca di riagganciarsi con difficoltà al mondo odierno. Un hipo, un hiccup, un singhiozzo temporale che lascia sbigottiti. La crisi argentina anche se passata è ancora dentro il tessuto di Buenos Aires e si respira in queste incongruenze temporali.

Non ho molto da dire di “turistico”, mi spiace. I viaggi li vivo in questo modo e quando torno a casa (quale?) ho più domande che risposte. Ma non sono le domande quelle che mi spingono a viaggiare?

p.s.

Potete leggere altri commenti politici ed economici che ho scritto pure qua.

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Se oggi fosse l’ultimo

Quante volte ci siamo chiesti che cosa faremmo se dovessimo scoprire che la nostra morte è imminente. Un medico che vi dice: “Mi spiace ma lei ha soltanto due mesi di vita.”. E lì a pensare a tutte le cose che si farebbero in quei pochi giorni rimanenti. Viaggi, ultime cene romantiche, donazioni ad amici e parenti stretti, magari un piccolo diario da lasciare ai posteri, e immancabili le indicazioni per il proprio funerale. Nella realtà forse non avverrà quasi mai così, alcuni si chiuderanno in una depressione senza via d’uscita, altri diventerebbero aggressivi, altri ancora si ritirerebbero nelle braccia di qualche religione fino a qualche giorno prima ignorata o perfino sbeffeggiata.

Ma quello che voglio fare è soffermarsi su quello che vorremmo fare se ipoteticamente il pensiero della morte ci sfiorasse alla domanda: “Cosa faresti se scoprissi che oggi è il tuo ultimo giorno di vita?”

Se cambiassimo qualcosa in quella domanda? Per esempio le risposte a questa domanda possono drasticare cambiare se cambiamo quel “tuo” con “nostro”. “Cosa faresti se scoprissi che oggi è il nostro ultimo giorno di vita?”

Se scoprissi che domani un meteorite cadrà sulla Terra spazzando via l’intera umanità per esempio? Nel racconto di Bradbury “The last night of the world” si ipotizza proprio questo e i personaggi non fanno assolutamente niente, anzi dire “niente” sarebbe sbagliato. Semplicemente continuano la vita di sempre anche se sanno che sarà l’ultimo giorno della loro vita sulla Terra.

Ci ho pensato molto a questo diverso comportamento. Cosa farei se sapessi che tutti gli uomini insieme a me moriranno? Mal comune mezzo gaudio, si dice. E forse è proprio così. Sapere che tutti gli altri insieme a noi moriranno ci rende quasi insensbili alla morte. Nessuna preparazione, nessuna isteria. E’ come se non fosse la morte di per sé a farci paura ma il fatto che il resto del mondo continui senza di noi dopo la nostra morte.

E’ proprio questo il punto: non ho paura della morte ma non sopporto che il mondo continui senza di me. Ma se viene nell’abisso con me, be’ allora non è poi così male.

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Da Porto a Ljubliana passando per Trieste

Nelle ultime settimane sono stato un po’ assente causa viaggi per lavoro. Avrei voluto fare un post dedicato ad ogni città che ho visitato ma è troppo impegnativo così vi lascio ad una lista delle tante impressioni che ho avuto.

Porto.

Se dovessimo utilizzare la stessa terminologia fantascientifica per identificare le tecnologie fuori dal loro tempo come steampunk e dieselpunk conierei un termine per Porto tutto suo: qualcosa del tipo vintagepunk (anche se esiste un genere musical con questo stesso nome). Se volete vedere una città bellissima che sa conciliare benissimo i mezzi di trasporto dell’inizio dello scorso secolo (vecchi tram, bidonvie, treni che vanno lenti sopra ponti dalle arcate metalliche ormai in disuso, calessi ecc.) con quelle mattonelle azzurre tipiche portoghesi delle case, lo stile liberty dei balconi, il barocco dei palazzi storici. Insomma ci siamo capiti. Bella. Ci rivado appena posso.

Braga.

Braga mi ha datto l’impressione di trovarmi di nuovo di fronte ad un paradosso temporale e geografico. Barocco, moderno, colline toscane, montagne alpine. E quel senso di saudade, cioè quel mix di nostalgia per qualcosa di perso e di speranze per un futuro incerto, che mi è sembrato di cogliere anche a Lisbona e Aveiro. Saudadepunk?

Verona.

Sempre bella, con quell’Adige così azzurro che la racchiude come un gioiello. Questa volta ho visto poco ma mi riprometto di ritornare.

Trentino.

Sono stato per alcuni giorni tra le montagne di Rovereto e San Michele all’Adige e nella Val di Non. Che dire? I meli in fiore sulle colline con le arnie affianco in piena attività, i monti innevati sullo sfondo e tanto verde. Aggiungeteci che ho dormito in un vecchio castelletto del 400 trasformato in hotel e mangiato da dio. Che devo dire di più? Una delle regioni più belle d’Europa.

Trieste.

Ah Trieste! Porta tra tre mondi, porto tra tre mondi. Poco conosciuta, quasi dimenticata negli itinerari turistici eppure essenziale. Trieste non è una città da cartolina e non ti porterai a casa nessun souvenir di plastica o magnete da frigo. Trieste te la porti dietro nei ricordi del suo golfo, dell’Istria all’orizzonte, del mare calmo sulle rocce bianche, delle salite ripide tra gli alberi della montagna. E quella melanconia tipica triestina, quel loro vivere in un limbo per secoli, la paura dell’identità (o l’orgoglio di una identità incerta?). Ecco! Ritrovo la saudade portoghese qui nella terra dell’irridentismo!

Ljubliana.

Per un attimo nel centro storico attraversando il ponte tra i salici piangenti ho pensato: Venezia che incontra Praga nei Balcani in pochi metri quadrati. Poi giri l’angolo e sembra… non trovo corrispettivi. C’è qualcosa di germanico o a volte scandinavo nelle strade e nelle case. O forse sono i balcani che io non conosco. Per me la prima volta in Slovenia, e spero non l’ultima. Una regione bellissima, un Trentino collinare (?), una Svizzera balcana (?). Non lo so, ma ho scoperto un paese moderno, accogliente, più aperto e pulito del suo vicino ad Ovest. E di nuovo, negli sguardi degli sloveni mi tornava alla mente quella parola, saudade. Incredibilmente mentre cercavo su Wikipedia informazioni sulla parola saudade scopro che lo sloveno è una delle poche lingue che ha vari corrispettivi per la parola saudade: hrepeneti, koprneti, pogrešati. E non può essere così visto il bivio tra il mondo postsovietico e quello neoeuropeista. Ricordi del passato, speranza per il futuro, addii e nuove conoscenze.

Possibile che la trovi dappertutto questa parola? Possibile che in tutte le città in cui sono stato recentemente abbia “visto” questa parola? O forse sono io, il viaggiatore, ad averla dentro di me e la proietto su tutto ciò che vedo? La mia vita è una saudade perpetua, ricordi (spesso falsati) del passato, speranze per il futuro (falsato). Addii e nuove conoscenze. Il futuro incerto diventa una nostalgia al contrario. Esisto solo nei miei viaggi, per il resto respiro saudade ogni giorno.

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10 motivi per andare all’estero

Copia-incollo un bellissimo post di Andima. Al contrario di quello che però scrive lui nel titolo io penso che siano 10 motivi PER andare all’estero. 😉

Periodicamente si torna a parlare di brain drain, per dichiarazioni discutibili di politici di turno o perché le statistiche vanno aggiornate e così le conclusioni spremute dai loro risultati. Andiamo allora controcorrente e proviamo a riportare un decalogo del perché andare all’estero potrebbe non essere la scelta ottimale:

1. La lingua. Altrove si parla un’altra lingua, che per quanto possiate parlare (o credere di parlare) bene, rimane comunque una lingua straniera. Se vi sentite pronti ad affrontare i primi colloqui o le prime avventure tra accenti maldestri e verbi mal coniugati, provate a pensarvi la prima settimana in un ospedale, perché qualcosa del genere può sempre succedere nelle coincidenze incaute della vita, e pensate a dover descrivere le parti del corpo che vi fanno male (quelle per cui non è facile risolvere tutto in un qui, , questa cosa) o i sintomi (vi brucia? vi preme? vi tira?). Certo oggi è tutto più facile, ma bisogna anche avere fortuna, siete pronti?
2. Lo shock culturale. Un altro paese è un altro paese, altri modi di fare, di essere, di vivere, e questi modi vi potrebbero sembrare tutti sbagliati, vittime dello shock culturale, quando si perdono i punti di riferimento e dopo un periodo estasiante da foglio bianco dovuto al cambio, vi potreste ritrovare in un umori grigi tra rifiuti e lamenti, rigettando il diverso che vi circonda all’estero. Ci vuole comprensione, autocritica e voglia di capire. Pronti?
3. Le reti sociali. E non quelle virtuali, ma di amicizie e conoscenze reali. In un paese straniero le reti sociali sono da ricostruire totalmente e se non si hanno già degli amici sul posto, non sempre è facilissimo crearsi un proprio gruppo, soprattutto con i locali, già impegnati nelle proprie reti sociali come voi lo sareste in patria, o con i colleghi, spesso non coetanei e magari restii a rapporti extra-lavorativi. Corsi di lingua, vita mondana, coincidenze, possono aiutare, con un po’ di fortuna, pazienza, voglia di conoscere. Siete pronti?
4. Il tuo paese, visto da fuori. Uscire e vedersi da fuori non è semplice e non sempre l’effetto fa piacere. Sgretolare convinzioni secolari, punti fermi figli di educazione nazionale o propaganda unilaterale, può lasciare un senso di smarrimento ma anche difesa, avendo l’impressione che un attacco, una critica o un commento non siano diretti al paese ma a voi. Ci saranno differenze tra il paese reale e quello percepito e non reagire sempre a spada tratta non è facile. Siete pronti a voler conoscere un altro paese, il vostro?
5. Gli stereotipi. Ritrovarsi a rappresentare l’Italia tutta, tu, in una sola persona, in conversazioni o rapporti con stranieri, significa anche avere una certa responsabilità, nel confermare o contraddire gli stereotipi con cui gli italiani sono visti dagli occhi altrui e diventare una finestra su un paese che attraverso voi non sarà sicuramente pizza, sole e mandolino, ma non sarà neanche quello reale, perché voi non siete l’Italia tutta né probabilmente la conoscete tutta, voi siete voi, solo che gli altri spesso non lo sanno e vi confondono con un italiano. Siete pronti anche voi a muovere la testa e non solo il corpo?
6. Il lamento. Potreste trasformarvi in un lamento continuo, perché il clima non è ideale, perché i trasporti non sono come immaginati, perché il lavoro è un compromesso, perché il cibo non vi piace, perché non c’è mamma a cucinarvi e perché fuori anche le piccole cose, quelle una volta etichettate come insignificanti, possono avere un peso nella bilancia quotidiana quando si rompono gli schemi e con essi le abitudini e bisogna ricostruire un po’ tutto. E se il lamento non viene da voi, potrebbe venire da vostri connazionali all’estero. Ci vuole resistenza, pazienza e serenità. Pronti?
7. I ritorni a casa. Tornando a casa ci sarà una voce che prima non esisteva nella testa, quella del confronto. Tutto sarà un confronto, nuovo, perché finalmente si ha un termine di paragone. I ritorni a casa, insomma, non saranno mai più gli stessi, rimettendo in discussione molto di quello che precedentemente rappresentava il vostro intorno abituale in un equilibrio oramai rotto. E le vacanze non saranno mai vacanze. Pronti a non sentirvi a vostro agio a casa?
8. I commenti. Diventare italiano all’estero significa anche portarsi dietro una certa lista di etichette, a cui bene o male ci si può abituare con risposte pronte o spallucce veloci. Ci sarà sempre il genio di turno a commentarvi come vigliacco, perché è facile partire e lasciare tutto, è facile criticare il proprio paese da fuori, perché (d’improvviso) non si conosce più il paese non vivendoci realmente o a denigrare il paese da cui venite ed una qualità di vita che non può, in nessun modo, essere superiore a quella italiana. E tante altre storielle che ritroverete puntualmente tra ritorni e chat. Sinceramente, chi ve lo fa fare?
9. Le mancanze. Ci sarà sempre quel momento, quello in cui manca una piazza, una panchina, il sorriso di un amico, la carezza della famiglia o il piatto della nonna, è il problema dell’emigrante, e con esso la voglia di ritornare, il rimorso di non aver fatto quello anziché questo. E ancora, ci sarà la mancanza di quel passato comune di voi verso gli altri e viceversa, quello che solo una cultura comune può costruire e che non troverete in amici stranieri e potrebbe portare rapporti sociali non più lontano di un certo limite. Ve la sentite?
10. Il limbo. Partire è un po’ morire, dicono, e infatti qualcosa muore mentre altro nasce. Partire significa perdere qualcosa della propria nazionalità e guadagnarne un’altra, di cosa, che non ha nazionalità, o le ha tutte. Diventare uno straniero ovunque può però avere effetti collaterali, come non sentir nessun luogo proprio, sentirsi a disagio nell’intorno natio o cadere nella voglia di voler cambiar luogo ogni anno, continuamente, alla ricerca di se stessi quando il signor Se stessi è con voi, basta solo fermarsi ed ascoltarlo. Sicuri di voler iniziare?

Detto questo, la felicità è soprattutto dove vivi. Appena (e se) potete però, fate la valigia e andate via, almeno per un po’, male non vi farà.

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Viaggiare per il mondo con gli inglesi

Alcune storielle che parlano dell’ inglese medio all’estero (tratte da storie vere non necessariamente dalla stessa persona).

1) tuoni in lontananza, un grosso temporale si avvicina sopra i cieli di Ginevra. Collega inglese che non aveva mai sentito tuoni così forti (in UK i tuoni sono rarissimi): “Hai sentito, stanno facendo scoppiare i fuochi d’artificio!”

2) ristorante tradizionale di Lisbona, dietro il bancone decine di prosciutti appesi. Collega inglese li guarda per alcuni secondi e poi chiede: “Cosa sono quelli?”

3)  Collega di origine irlandese molto carina torna da un viaggio nel Sud Europa. “Siamo entrati in questo pub del paese (un bar di paese, non un pub! N.d.F.) ma c’erano solo vecchi barbuti e ubriachi. Dopo cinque minuti tre uomini si sono avvicinati e ci hanno offerto da bere, poi hanno incominciato a chiederci se volevamo andare in giro in macchina con loro. Sai ho avuto l’impressione che i pub europei sono diversi da quelli inglesi…”

4) “Potrei avere delle tapas per piacere?” collega inglese in un locale di Lisbona.

5) “Ma che differenza c’è tra la Francia e la Germania?” Collega inglese che a stento riusciva a collocare i due paesi sulla cartina geografica.

6) “A mio parere dovrebbero far uscire la Turchia e la Russia dall’Unione Europea.” altro collega inglese moooolto sveglio.

7) “Ma guarda che ignorante questo cliente: mi ha detto che la Colombia è in Sudamerica!” Collega che confondeva lo stato sudamericano con il District of Columbia in USA. “Ma quindi esiste veramente uno stato sudamericano che si chiama così?”

8) Aereo spagnolo diretto a Madrid. Turista si rivolge all’hostess dopo che questi le dice Bienvenida: “Oh mi scusi non parlo italiano. Che ha detto?” L’hostess: “Signora questo è un volo dell’Iberia diretto in Spagna e le ho appena detto Benvenuta in spagnolo.”

9) Inglesi che sbarcano in Italia: “Ehh gracias amigo. Que tal?”

10) “Dove vai in vacanza?” “In Portogallo.” “Ah, e dove?” “Boh, non lo so. Vado con delle amiche ad ubriacarmi, dove mi porta l’aereo io vado.”

11) “Dove sei stata in vacanza?” “In un posto bellissimo, ci siamo divertiti tantissimo.” “Sì ma dove?” “Mark (rivolgendosi al marito) come si chiamava quel posto affascinante dove siamo stati per due settimane?” “Sri Lanka cara.”

12) e poi quello che tutti i sardi si devono subire all’estero: “Da dove vieni?” “Dalla Sardegna.” “Ah Sicilia. Mafia!” grasse risate.

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E se non fosse come un orologio?

“Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d’ignoranza in mezzo a neri mari d’infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che fi­nora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arreca­to troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occu­piamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura.”

H. P. Lovecraft, Il richiamo di Cthulhu

Pare che l’Universo si stia espandendo soprattutto verso una sola direzione e non uniformemente come sempre pensato. E questo a mio parere potrebbe supportare ulteriormente la teoria dell’universo a bolle: come grappoli di palloni in espansione possiamo solo crescere in alcune direzioni. Molto interessante. E chissà se in questa cornice cosmologica ci siano i presupposti  per riproporre gli intermundia di epicurea memoria. Con tanto di dèi lovecraftiani.

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Storia di uno sdoppiamento corporale

Sogno agitato l’altra notte. Vengo a scoprire dalla TV che il mio corpo  è caduto da un dirupo durante una scalata in montagna. Disperso, morto sicuramente. Mi dispero e ne parlo con gli amici. Soprattutto quello che mi sconvolge di più è che non si trovi il mio corpo. Infatti come potrò essere seppellito quando morirò a mia volta se non si trova il mio corpo?

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La fine del mondo

No questo non è un post sulle profezie dei Maya sul 2012, tranquilli. E’ solo che mi sono imbattuto quasi casualmente in questi tre casi:

1) Land’s end sulla punta della Cornovaglia, il punto occidentale più estremo di Albione.

2) Finisterre, il punto più occidentale del della Galizia in Spagna.

3) e la Bretagna che viene spesso indicata dai francesi come  Finistère.

Ho trovato curioso che tre popolazioni diverse avessero utilizzato lo stesso toponimo per le loro punte occidentali più estreme. Ovviamente dopo la scoperta delle Americhe il nome non ha più senso ma dà l’idea di come in passato la gente guardasse all’occidente, lì dove tramonta il sole. Sarebbe interessante scoprire se esistono toponimi simili nella costa del Pacifico asiatico o se invece in Oriente erano consapevoli che con la loro costa la Terra non finiva lì. E probabilmente non troveremo alcuni di questi toponimi in Islanda, visto che i vichinghi conoscevano la Groenlandia e forse il Nord America.

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Meraviglia

Aurora australis vista dalla Stazione Spaziale Internazionale.

hat tip: Questione della decisione.

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