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Sulla cecità cromatica

Vero titolo sarebbe dovuto essere “Sulla cecità cromatica di alcune culture, ovvero percezione e descrizione dei colori dipendono dalla cultura”. Troppo lungo vero? Però dà l’idea di che cosa questo post parlerà. Sembra incredibile ma la percezione e la descrizione dei colori non sono universali. E non parlo di culture lontane da noi, perfino all’interno della famiglia Indo-europea esistono differenze enormi nel modo in cui percepiamo e classifichiamo i colori. Per prima cosa molte culture raggruppano i colori in gruppi. Per esempio il termine moderno (ne parlo più giù) blu raggruppa al suo interno una serie di tonalità che alcune culture non classificano come distinte. Quando mi spostai a vivere in Inghilterra rimasi sorpreso dalla povertà di termini usati nel gergo colloquiale per indicare tonalità di colori. Mentre in italiano abbiamo turchese, azzurro, celeste, blu o indaco ecc. per indicare diverse tonalità gli anglofoni tendono a raggruppare il tutto con il termine blu. Esistono turquoise, azure, indigo ma sono termini specialistici, usati raramente nel linguaggio di tutti i giorni (a parte indigo per arcobaleno che da noi dovrebbe essere il violetto/viola).

Ma esistono culture e quindi anche lingue con più povertà cromatica. Prendiamo gli antichi greci, i quali non avevano alcun interesse nel classificare le tonalità dei colori, e raggruppavano i colori in gruppi che noi moderni ora distinguiamo nettamente. La differenza tra verde e blu non era cosi marcata (chloros e glaukos indicavano tonalità dello stesso colore dal grigio al giallognolo; xanthos dal giallo al rosso; il termine blu kuanos fu introdotto solo nel VI secolo d.C.). In Omero il mare non era azzurro o blu ma “come il vino”. Euripide parla del mare perfino come purpureo. C’è da dire che per i greci i colori venivano riempiti di significati emotivi e perfino sacri che spesso prevalevano sulla descrizione più “scientifica” della gamma di colori. Noi moderni forse abbiamo acquisito questa maggiore precisione nel descrivere le tonalità dopo Newton e il suo esperimento con il prisma. Ma questo è un altro discorso.

Esistono comunque molti problemi con il colore blu, direi quasi da ricercare non tanto nella semantica quanto piuttosto nella capacità dei nostri occhi di distinguere tra le diverse lunghezze d’onda al confine tra blu e verde. In Giapponese non esiste distinzione tra blu e verde, per esempio, che usa la parola ao per definire entrambi. Il termine midori per indicare verde è relativamente recente e il suo uso si è diffuso solo dopo la Seconda Guerra mondiale a causa dell’influenza occidentale. Qui invece una mappa con alcuni esempi di lingue che non distinguono tra verde e blu.

Ma tornando al blu, in realtà la parola blu deriva dal francese bleu, il quale a sua volta deriva da una radice germanica. Dal francese poi blu fu esportata in tutte le lingue romanze relativamente di recente. Per esempio, guardate questo grafico che indica la frequenza dell’uso di blu in italiano in letteratura. Come potete vedere è molto probabile che i nostri nonni alla scuola elementare non abbiano mai incontrato la parola blu. Durante il fascismo ci fu un picco di azzurro (forse per contrastare l’uso del francesismo blu?) ma poi alla fine blu ha vinto rispetto ad azzurro e ora quasi tutti quelli delle nuove generazioni prediligono l’uso di blu. Tipico caso di forestierismo che ha vinto sul termine autoctono*.

*aggiornamento: azzurro tanto autoctono non è visto che deriva deriva dall’arabo lazurd a sua volta derivante dal persiano lazward. Da cui anche lapislazzuli!

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