Vorrei ritornare brevemente sull’argomento sperimentazione animale, a freddo, con più calma. E vorrei farlo mettendo a nudo i miei sentimenti, di ricercatore certo ma anche e soprattutto di persona con un discreto livello di sensibilità. Verso il dolore, verso la morte, verso il prossimo.
Credo che quello che possa dividere me da un animalista medio sia la percezione della vita come un’inevitabile strada verso la morte. E’ difficile generalizzare e non sarebbe giusto nei confronti di chi invece esce da questo mio stereotipo ma nella mia esperienza di vita questi sono i sentimenti che ho riscontrato nei cosiddetti animalisti: la vita è sacra, la morte è inaccettabile, tutti gli esseri viventi sono uguali, la sofferenza non dovrebbe esistere.
Sono convinto che molte delle persone che sono contro la sperimentazione animale non abbiano ancora raggiunto un equilibrio con la morte. Non si siano rassegnati – no rassegnarsi non è il verbo giusto ma ora non mi viene in mente altro – all’inevitabilità della morte. Il ciclo della vita-morte, viviamo della morte di altri esseri, muoriamo per la vita di altri esseri. Il ciclo del carbonio lo chiamano, non facciamo altro che trasferire queste catene organiche con milioni di C e H da un essere ad un altro, in un immenso fiume organico che dalla polvere ci porterà di nuovo alla polvere. Niente si crea dal nulla e nulla si distrugge. Vivo del C di un’ameba mangiata milioni di anni fa e l’H viene dal batterio morto un miliardo di anni fa. Non c’è scampo: se vuoi vivere devi appropriarti del C e dell’H di qualcos’altro. E che tu lo faccia tramite animale o una pianta non cambia nulla: le catene di C della pianta sono state parte di un animale e prima ancora di un altro. Le radici crescono sul sangue di miliardi di atroci omicidi e silenziose tragedie.
La morte quindi è una cosa normale, banale, giusta per giunta. Dovrebbe esserlo ma non lo è per molti che sono vissuti in una generazione cittadina, anestetizzata, ripulita dalla morte. Dove il morto si nasconde agli occhi dei vivi e viene spedito in celle frigorifere, dove preleviamo dalle celle frigorifere fette di carne senza vedere la morte o la macellazione. Non esistono ambientalisti in campagna, non esistono animalisti tra i pastori. Esistono solo nelle città.
Ho tolto la vita certo, ma questo non mi rende più mostruoso di chi ogni giorno si ciba di cadaveri ben serviti sul proprio piatto uccisi da qualcun altro. O di chi mangiando delle verdure pensa che siano cresciute senza conoscere il sangue e la morte di qualche altro essere.[*] Ho tolto la vita e l’ho fatto con estremo rispetto e cura. Non ho mai sprecato la vita a cui ho tolto il respiro e ho sempre insegnato ai più giovani questo rispetto. Religioso rispetto. Ringraziare il prossimo per il sacrificio.
Non mi aspetto che tutti possano comprendere queste parole ma se c’è qualcuno là dietro la tastiera che legge e non è ancora convinto chiedo la pazienza di aspettare ancora perché ho in serbo degli esempi più pratici.
In laboratorio si ricrea l’eterno ciclo della vita e della morte, esattamente come in natura. I topi vengono uccisi, i topi vengono fatti accoppiare, i topi vengono nutriti, i topi vengono usati. Sarebbe da stolti pensare che un topo non venga ucciso o non venga mangiato in natura. In natura non funziona così, non è sterilizzato come nelle società moderne dove la morte non si vuole vedere. I topi sono roditori e come tali sono destinati al nutrimento di altri animali. La vita media di un topo in natura è di tre mesi, in un laboratorio di 2 anni. Un topo è continuamente cacciato, maltrattato, smembrato, ucciso da altri animali; alla continua ricerca di cibo se sopravvive alla caccia spesso muore di malattie o di freddo. Da questo punto di vista il topo di laboratorio è un privilegiato con temperature e cibo costanti, livelli di stress minimi e abnormi rispetto al mondo reale. Molti si riproducono, altri non arrivano all’età adulta, ma veramente pochi conoscono la paura, la sofferenza, la fame, la malattia. Ma non è un paradiso è alla fine arriva il momento della morte. Ma invece di finire nelle fauci di un gatto o un serpente per estrarre le catene organiche di C e H, possiamo usare il suo corpicino per altri scopi. Per capire come funziona la vita, per sconfiggere il dolore, per debellare le malattie. Non solo per noi stessi ma anche per altre specie, incluso Mus musculus.
Da una parte abbiamo un topo in natura che morirà nel giro di tre mesi forse sotto atroci sofferenze, dall’altro possiamo scegliere di fargli avere una vita tranquilla e senza stress per poi chiedergli indietro la vita senza sofferenze. Cosa scegliereste se foste un topo? Non è forse un buon accordo tra le parti? Ti allungo la vita e non ti faccio conoscere la sofferenza, quando muori utilizzo le tue cellule per salvare altre vite. Il ciclo del carbonio è alterato ma è pur sempre lo stesso identico eterno ciclo. La Signora con la falce arriva ma solo quando lo decidiamo noi.
Il problema quindi per me non è la morte di per se stessa, che è normale e che accetto, ma il dolore. A parte rarissimi casi la maggior parte degli animali viene semplicemente uccisa per prelevare cellule o organi e questo viene fatto sempre, assolutamente sempre sotto anestesia.
Con tutto questo in mente alla fine un uomo può fare una scelta: razionale ma anche e soprattutto etica. Una volta che si hanno davanti tutti i pezzi del puzzle della vita su questo pianeta ci si rende conto che spesso le scelte che paiono più atroci sono paradossalmente le più caritatevoli. Non pretendo di avere l’ultima parola e neppure di avere in mano tutti i pezzi di questo immenso puzzle ma prima di aprire bocca e prima di giudicare gli altri bisognerebbe fermarsi cinque minuti e pensare.
[*] Per ogni ettaro di terreno coltivato a graminacee vengono uccisi 100 topi, graminacee che poi vengono utilizzate anche per i mangimi dei topi che gli animalisti hanno salvato dai laboratori.
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