Archivi del mese: ottobre 2017

Recensione de La Stanza Profonda di Santoni o del “eravamo i ragazzi di Stranger Things before it was cool”

Basta un libro per riallacciarti ad un periodo della tua vita che pensavi morto e sepolto? Sfogliare pagine e pagine di uno che alla fine non hai mai conosciuto ma che riesce a farti rivivere episodi e emozioni di quindici anni prima? Domande retoriche ovviamente perché sto parlando de La stanza profonda di Vanni Santoni, autore che non avevo mai letto prima ma che sicuramente d’ora in poi seguirò. Avevo rimosso (forse rimuovere non è il verbo giusto perché se sono quello che sono oggi è anche grazie a quella “stanza profonda”) una parte della mia adolescenza pensando che fosse stata una parentesi bellissima ma di poca importanza nell’economia dell’universo e invece mi rendo conto che il presente come lo conosciamo oggi non esisterebbe senza quei milioni di ragazzi che si incontravano in milioni di stanze profonde. Di cosa parlo? Ma dei giochi di Ruolo (GdR) ovviamente e della sottocultura che hanno generato.

C’era un tempo in cui vestirsi da elfo o mago del Signore degli Anelli, abbonarsi a Netflix solo per vedere Stranger things, comprarsi tutti i volumi del Trono di Spade, leggere manga e fumetti, apparire come uno dei protagonisti di Big Bang Theory (tutte cose che oggi sono considerate mainstream e pop) era considerato scandaloso. Da parte dei tuoi coetanei, da parte delle famiglie e dalla società tutta. Significava essere strani, asociali, fuori dalla norma, infantili, ostracizzati. Ti venivano affibbiati decine di appellativi tra cui perfino satanista. “Ma stai ancora a giocare alla tua età?” Era la domanda che ci veniva fatta continuamente alle stesse persone che oggi sui loro Instagram postano selfie di loro stessi di fronte alle sagome dei protagonisti del Signore degli Anelli all’entrata del cinema. Dalla stessa gente che oggi si compra l’edizione limitata del Trono di Spade e ne fa sfoggio su Twitter.

Ecco, Santoni ci porta indietro nel tempo e fa giustizia a milioni di persone come me che hanno avuto la fortuna di vivere in quel periodo meraviglioso tra fine anni 80-90 e inizio 2000 in cui si giocava ancora a Dungeons & Dragons – di videogiochi c’erano solo quelli arcade del Commodore 64 e poi dei primi PC. Noi infarciti di cultura anni 80 che proiettavamo nelle nostre avventure settimanali, mentre gli altri ragazzi “normali” facevano cose “normali” come andare a giocare a calcio o a fare le vasche della via principale nella speranza di abbordare qualche ragazza. La Stanza Profonda è la dimostrazione che ancora nel 2017 esiste una comunità di giocatori orfana di quel periodo magico. Siamo milioni di persone in tutto il mondo che abbiamo condiviso un sogno senza renderci conto di essere stati la testa di ponte di una rivoluzione nella cultura pop che ha forgiato letteralmente il mondo dell’immaginario del presente. Tutta la cultura mainstream odierna tra trilogie fantasy, Jon Snow e bionde khaleesi, perfino Harry Potter, le trasposizioni cinematografiche di anime e manga, la rinascita di Star Wars, il revival anni 80 di certe opere cinematografiche come Stranger Things (chissà se tutti quelli che consideravano i nostri giochi come infantili quando hanno visto i protagonisti di Stranger Things hanno riconosciuto Dungeons & Dragons); tutto questo infatti è figlio di autori, scrittori e registi che ora, adulti, hanno potuto raccontare ciò che hanno sognato quando da ragazzini giocavano nella Stanza Profonda.

Per chi non lo avesse letto La Stanza Profonda di Santoni racconta di un gruppo di amici della provincia toscana che si riunivano nello scantinato di uno dei protagonisti da adolescenti e poi dopo da adulti. Un po’ autobiografia, un po’ fiction il libro ci racconta nel dettaglio cosa passava nella testa di quei ragazzi di quel periodo e tutte le difficoltà che incontravano nella società. Dal cercare di spiegare cosa fosse un gioco di ruolo ai profani (cioè il 99% della popolazione) con frasi tipo “E’ come teatro!” alle infinite discussioni per la sua definizione: “E’ un gioco dove nessuno vince, o meglio tutti vincono.”. Dall’evitare di parlarne di fronte alle ragazze perché ti avrebbero ostracizzato a vita – a quell’età le ragazzine sanno essere incredibilmente crudeli nei loro giudizi e nella loro selezione dei partner. Uscire con un giocatore di ruolo era come per un appartenente alla casta più alta indiana uscire con gli intoccabili della casta più bassa. Cose veramente incredibili da credere nel 2017, l’anno della rivincita dei nerd.

Il libro si divide in due tronconi principali, la parte adolescenziale vera e propria e quella adulta. Nell’adulta i protagonisti cercano di ricucire con il passato, un passato che è stato spezzato senza possibilità di trovare un finale degno, in inglese si direbbe “trying to find a closure”. Il motivo? Semplicemente la crescita dall’adolescenza delle scuole superiori all’università/lavoro. Nel frattempo fidanzate, poi mogli e poi bambini e carriere lavorative e mutui. Insomma la vita adulta. E qui sorge il dilemma del libro: come si fa a ricucire da adulti con quel periodo fantastico in cui non si avevano responsabilità e legami familiari? Mentre il romanzo svolge il suo corso si accenna ad uno dei figli dei protagonisti che rimane incuriosito dai dadi e dalle schede personaggio. E allora li’ ti rendi conto che forse è impossibile tornare a quel passato, riuscire a far riunire tutti gli amici ora sparsi per il globo e con mille problemi in quella stanza profonda. Ma si può fare altro: si può crescere una nuova generazione ad apprezzare quel mondo. La Stanza Profonda mi ha insegnato che il futuro dei giochi di ruolo non è nel ricucire col o riprodurre il proprio passato ma con il trasmettere la propria passione a chi verrà, ai propri figli. E non mi sembra poco.

 

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Gli italiani ultimi in graduatoria Netflix per scelta lingua originale

L’intervista del vice presidente Netflix Yellin rilasciata a La Stampa ci dice molte cose sulle capacità linguistiche dell’italiano medio. Netflix nasce come piattaforma per film e telefilm in streaming ma ciò che la rende rivoluzionaria e vincente nel mondo è la capacità di slegarsi completamente dal concetto TV-nazionalistico del secolo passato. Con Netflix per la prima volta puoi guardare i film che decidi tu, alla stessa velocità del cambio di canale in TV, con il vantaggio che puoi vedere film di qualsiasi paese e in qualsiasi lingua, coi sottotitoli o meno. Ebbene, nonostante questo gli italiani preferiscono guardarsi i film doppiati e non azzardano neppure a mettere i sottotitoli. Col rischio di ritardare uscite film o di perdersi anche puntate di telefilm come fu il caso del quarto episodio di Star Trek Discovery, ritardato di una settimana a causa di un problema di doppiaggio. Il fatto è che non c’è neppure bisogno di sapere una lingua per guardare un film in lingua originale. Coi sottotitoli si può guardare di tutto senza che la visione sia rovinata o storpiata dal doppiaggio, un filtro inutile e dannoso per la corretta visione di una opera cinematografica. Per esempio io sono grande estimatore degli horror coreani e di anime giapponesi e li guardo in originale, ma non so una parola di coreano e giapponese. Nonostante questo l’Italia ha il triste primato di essere l’ultima per accesso ad audio originale e uso di sottotitoli con un magro 16%. Seguita da Germania e Spagna, altri due paesi in cui la tradizione del doppiaggio è molto forte (non è un caso che siano stati tutti e tre paesi ad avere vissuto sotto il fascismo, che richiedeva l’uso obbligatorio della lingua nazionale).

Interessante è anche il grafico sulla seconda lingua più usata all’estero: l’italiano è la lingua più scelta dopo tedesco e spagnolo in Germania e Spagna. Forse spiegabile con il gran numero di immigrati italiani in questi due paesi?

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Kurdistan nel caos

Come era prevedibile dalle premesse e dai personaggi coinvolti – vedi mio post di qualche giorno fa qui – il Kurdistan post-referendum e’ nel caso più totale. Con una delle decisioni più stupide della sua lunga carriera politica Barzani ha voluto inserire nel futuro Kurdistan tutti i territori conquistati recentemente dall’ISIS come Kirkuk, Ninive e Sinjar. Tutte a zone o a maggioranza araba o miste. E comunque fuori dai confini del KRG, Kurdistan Regional Government. Ovviamente l’Iraq con l’aiuto delle PMU, le milizie sciite, non ci ha pensato due volte e ha marciato verso Kirkuk. I peshmerga, vista la artiglieria pesante battere in ritirata per ordine di Barzani ha dovuto fare bagagli e scappare di tutta corsa. Solo i militanti del PKK son rimasti ma solo simbolicamente. La popolazione curda, visti i peshmerga scappare a gambe levate e stata presa dal panico ed e’ scappata fuori dalla città. 100mila curdi si sono infilati in automobili e si sono diretti verso l’autostrada. Per la terza volta Barzani ordina all’esercito di ritirarsi e ogni volta sono i civili a perderci – prima nel Sinjar dove  gli Yazidi furono massacrati poi a Ninive e ora Kirkuk. Cio’ che non era riuscito a fare Saddam contro i curdi e’ riuscito Barzani. Ovviamente gli Stati Uniti si sono strategicamente tirati fuori dalla disputa ma con un solo obiettivo: quello di far avanzare le PMU sciite verso il Kurdistan e poi condannare l’Iran per pulizia etnica. La pistola fumante per la prossima guerra contro l’Iran. Ma Abadi e l’Iran non sono scemi e hanno fatto ritirare le milizie sciite da Kirkuk il prima possibile lasciando solo l’esercito federale iracheno. Stessa cosa che gli USA faranno con l’SDF quando l’ISIS sarà sconfitto in Siria. Gli USA abbandoneranno l’SDF (YPG + milizie arabe) quando l’esercito siriano e la Russia reclameranno Raqqa e le altre zone occupate. Per poi accusare l’Iran e la Russia di massacri contro i curdi. Mai, dico mai, allearsi con gli americani. Ti useranno solo come pedine per i loro fini e poi al cambio di amministrazione alla Casa Bianca sarete carne da macello.

Update: Oggi ci sono voci di un golpe contro il governo Barzani. Ne vedremo delle belle nei prossimi mesi.

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Regionalismi da asporto

Per chi (come molti miei lettori non sardi) non lo sapesse  i sardi hanno un complesso d’inferiorità non da poco con il resto degli italiani e una tendenza senza eguali a fare paragoni con il resto delle regioni. L’isola più distante (più vicina all’Africa che all’Italia) del paese è vista come una sorta di colonia dal resto degli italiani e nella testa dei sardi convive la paradossale doppia natura della voglia di separatismo e della voglia di sentirsi accettati. Questo vale anche e soprattutto per la lingua. In Sardegna ci sono varie lingue: sardo campidanese, sardo logudorese (considerate varianti del sardo ma che per me poiché inintelligibili tra loro sono lingue separate), le lingue derivanti dal toscano tramite corso come gallurese e sassarese, algherese (variante catalana), tabarchino (dialetto ligure) e ovviamente l’italiano. L’italiano è tra queste l’ultima lingua ad essere approdata in Sardegna. I Savoia imposero l’italiano alla classe burocratica e nobiliare sarda ma il primo vero tentativo di diffusione di massa dell’italiano nell’isola lo si deve prima al fascismo e poi alla scolarizzazione di massa del Dopoguerra. Significa che i sardi hanno dovuto imparare una lingua imposta dall’alto in due generazioni con tutte le difficoltà del caso: calchi dal sardo in italiano sono infatti innumerevoli che a loro volta sono calchi dal castigliano e dal catalano. I sardi delle campagne spesso con un vocabolario minimo di italiano hanno dovuto attingere alla loro lingua madre, il sardo, per esprimere parole che non conoscevano in italiano, creando un melting pot.

E infatti oggi esistono due italiani: quello standard e quello regionale. Pochissimi, se non gli addetti ai lavori di linguistica e quelli che come me vivono all’estero, parlano italiano standard (diciamo meno dell’1%). Per il resto i sardi parlano una versione regionale dell’italiano senza esserne consapevoli. Anch’io prima di stare all’estero a contatto con italiani di altri regioni usavo molti termini regionali senza rendermene conto. La natura isolana della Sardegna e le percentuali risibili di immigrati dal continente infatti precludono al sardo di distinguere tra regionalismi e italiano standard. Non aiuta il fatto che la maggior parte degli insegnanti nelle scuole sia sardo e quindi la scuola non corregge, anzi rinforza ancora di più la convinzione nei sardi che il loro italiano sia standard. E però da quando sono all’estero a contatto con centinaia di italiani – forse il Regno Unito è il posto dove si possono incontrare più facilmente nello stesso luogo tutti i rappresentanti delle regioni italiane – mi sono reso conto che si’ i sardi non parlano italiano standard ma la cosa vale egualmente se non di più per le altre regioni. Come è possibile? Si chiede il giovane sardo emigrato. Comprensibile e giustificabile per i sardi per le difficoltà geografiche e storiche della Sardegna ma come è possibile che pure a Roma e a Napoli nessuno parli italiano standard? E anche per questi come con i sardi, senza rendersene conto? Poi mentre parli con loro ti rendi conto che veramente pochi hanno abitato fuori dal loro paesino di provenienza, addirittura meno fuori dalla propria regione. Tra sardi si sognava da ragazzini: se fossi al nord Italia andrei ogni fine settimana in Francia o in Svizzera! Beati i continentali che possono andare a vedere tutte le città d’arte italiane! E invece ho conosciuto liguri che non avevano mai attraversato il confine con la Francia, milanesi che non sono mai andati in Svizzera o a Roma. Veneti che non sono mai andati al di sotto di Roma. E poi sono i sardi a lamentarsi della continuità territoriale! E allora mi sono resto conto che la Sardegna non è l’unica isola linguistica e geografica in Italia: ce ne sono ben 20. E che anzi, nonostante gli handicap isolani, l’italiano regionale sardo sia uno dei più vicini all’italiano standard (chiaro, non il migliore). E questo è anche provato dal fatto che per un sardo scoprire di aver sempre sbagliato un termine in italiano sia motivo di vergogna mentre per altri italiani sia naturale o addirittura motivo di orgoglio.

Ma i regionalismi, quali che siano, hanno eguale dignità alle lingue o sono solo storpiature della lingua standard? Io sono dell’opinione che i regionalismi possano avere pari dignità a patto che escano dal recinto regionale, siano usati da una buona fetta della popolazione e siano originali (diventando da regionalismi dialettismi). Cosa significa, originali? Significa termini che non hanno equivalente in italiano ma che solo il regionalismo può rendere. Spesso importiamo anglicismi (forse troppi senza motivo recentemente) di termini che non hanno corrispettivo in italiano come feedback, spelling, email, computer ecc. Negli anni lo abbiamo fatto coi dialettismi come dal siciliano (abbuffarsi, mattanza, omertà, minchia, minchione) e veneto (marionetta, ballottaggio, pantaloni ecc.) per fare solo due esempi, perche non farlo anche dall’italiano regionale sardo? Tra i tanti ve ne elenco solo tre:

  1. scramentare: calco dal sardo scramentai a sua volta calco dal castigliano escarmentar che significa “apprendere dagli errori passati per non farli di nuovo” o “sbagliando si impara”. Questo meraviglioso iberismo passato al sardo sarebbe perfetto in italiano.
  2. uso del gerundio al posto dell’infinito: per “ho visto i bambini mangiare (mentre mangiavano)” un sardo direbbe “ho visto i bambini mangiando”, calco dal sardo “appu biu is pippius pappendi”. Costruzione tipica delle lingue iberiche e in parte dell’inglese (verbi che finiscono in -ing) che per un caso non si e’ adottato pure in italiano. Ora, se ci sono 750 milioni di persone al mondo che usano il gerundio in questo modo ci sarà un motivo? Comodo, veloce, trasmette un senso temporale che l’infinito non può. Il numero dei parlanti al mondo ne giustifica il prestito all’italiano.
  3. non fare: “non fa!” lo sentirete spesso solo in Sardegna ma i sardi pensano sia italiano. Viene dal sardo “non fairi” e significa “non si può”. E’ una espressione cosi efficace che tutti i continentali che conosco che vivono in Sardegna lo hanno adottato immediatamente, segno che e’ arrivato il tempo di contaminare il resto del continente con questa bellissima espressione dell’italiano regionale sardo.

I regionalismi sono una fonte inestinguibile di nuovi termini e anzi spesso ci rammentano di termini antichi ormai desueti o aulici che nell’italiano odierno sono scomparsi. Faccio alcuni esempi di parole italiane oggi scomparse ma ancora presenti nell’italiano regionale sardo:

  1. andito: dal latino medievale anditus, termine ormai usato quasi esclusivamente in Sardegna per indicare corridoio.
  2. imperiale: si usava per indicare il portabagagli sopra il tettuccio nelle carrozze. Oggi traslato in Sardegna per indicare il portabagagli sopra il tettuccio delle auto.
  3. cinto: direttamente dal latino e sinonimo di cintura.
  4. braghetta: come sinonimo di zip, deriva dall’apertura anteriore dei pantaloni con bottoni di qualche secolo fa.
  5. cacciare: nel senso di vomitare che deriva dall’accezione di cacciare che indica “far uscire fuori” come nel “cacciar fuori”.
  6. mischino: da meschino nel senso di persona infelice, sfortunata. Usato anche in Sicilia e in Veneto.
  7. arsella: sinonimo di vongola verace dal latino arcella, piccola scatola.

 

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Manganellate liberali

Se fossi stato scozzese avrei votato no

Se avessi avuto diritto al voto – da residente fisso in Inghilterra – avrei votato no alla Brexit.

Se ci fosse un referendum su indipendenza della Sardegna voterei – da sardo non praticante – no, ma voterei si per l’annessione della Sardegna alla Svizzera per la formazione del Canton Marittimo.

Se fossi stato catalano prima di ieri avrei votato probabilmente no. Oggi dopo quello che ho visto forse avrei votato si.

Sono molto critico del metodo referendario e delle decisioni prese da maggioranze contro minoranze.

Quello che ne viene fuori è un profilo, il mio, atipico: transnazionalista, panarchico, libertario. E quindi non mi si possa tacciare di indipendentismo quando difendo il diritto al voto dei catalani contro madrileni. Un diritto basilare che sovrasta quelle architetture (prigioni le chiamerei) ottocentesche del Leviatano chiamate Costituzioni. Tutte posizioni che, fino a ieri, presumevo facessero parte del portfolio di libertari (certo!) ma anche di liberali e radicali.

E invece noto con amarezza e un po’ di sorpresa che tra tanti liberali italiani -molti ex-radicali tra l’altro – il tema dell’indipendenza catalana ha suscitato risa, commiserazione e soprattutto cinismo. Si parla di farsa, di referendum incostituzionale, di illegalità (tutti termini badate bene adottati dal franchista Rajoy). Allora, mi pare doveroso fare qualche lezioncina di ripasso a quei ex-compagni radicali e liberali su quale sia rapporto tra legalità e diritto per ricordargli le battaglie vinte e perse del passato (ormai da quando Pannella morto lontanissimo quasi remoto).

  1. la dicotomia legalità-illegalità non è sinonimo di giusto-sbagliato. Tutto quello che è legale è stato deciso da maggioranze (in realtà minoranze ben organizzate) ma questo non evidenzia alcuna “giustezza” della legge. In parole povere legalismo non si sposa con etica. Vorrei ricordare che schiavitù, apartheid, guerre, genocidi erano (sono) legali e a suo tempo costituzionali. E senza andare lontano aborto e divorzio erano illegali. E sono tuttora illegali liberalizzazione droghe, eutanasia ecc. e ovviamente le secessioni. Tra l’altro la cosa buffa e molto, molto triste è che ho visto le stesse persone che supportavano Kurdistan e Tibet liberi appoggiare le manganellate di Rajoy contro civili inermi in Catalogna. Le cosiddette manganellate liberali. Gente che nel profilo ha la Statua della Libertà e non si rende conto che gli USA nascono da un atto di sedizione e illegale. Gente che fino a qualche anno fa parlava di disobbedienza civile che tradotto significa “atti illegali” per evidenziare quanto una legge fosse sbagliata e immorale.
  2. Non puoi essere per la disobbedienza civile e per l’applicazione della legge, quale che sia, allo stesso tempo. Ma soprattutto non si può essere dalla parte di uno Stato che invia 5000 poliziotti in tenuta antisommossa e manganella cittadini inermi. Se fai questo ti metti fuori dalla famiglia del liberalismo (non tocchiamo neppure il libertarismo per carità).
  3. nello specifico spesso si accusa il governo catalano di avere usato metodi sbagliati per referendum indipendentista come se ci fosse un’alternativa legale. Non credete a queste balle: l’alternativa legale non esiste. Catalani o baschi o sardi o veneti non hanno possibilità di scegliere sui temi secessionisti tra metodi legali o illegali perché la Costituzione lo proibisce. E poiché sono minoranze non potranno mai avere maggioranza per cambiare Costituzione. Fine della storia. Niente cavilli costituzionalisti o legalisti. Infatti realtà senza costituzione come il Regno Unito permettono referendum secessionisti.
  4. Molti liberali e ex-radicali/radicali sono pro-Unione Europea e pure il sottoscritto ne esalta -spesso prendendosi insulti- gli aspetti positivi considerandola il meno peggio rispetto agli Stati nazionali ma come si può oggi applaudire a Bruxelles quando ha permesso che il fascista Rajoy manganellasse a sangue, censurasse internet e stampa libere parlando di “questioni interne alla Spagna”? Da che pulpito allora Bruxelles attacca (giustamente) le questioni interne dei suoi vicini di casa come la Russia e la Turchia? Come si può ergere a difensore dei diritti umani quando al suo interno chiude un occhio sulla repressione fascista dei suoi membri?

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