Quando si è immigrati è sempre la solita solfa: ti guardano, ti squadrano, ti giudicano. E quando non corrispondi al loro stereotipo incominciano a chiederti: “Ma come può un italiano non fare questo?” “Ma tu sei italiano! Dovresti essere così!” “Perché non ti comporti come penso che tu ti debba comportare?” ecc.
Sei caotico, sei imbroglione, sei latin lover, sei cattolico, bevi caffè e vino, ti piace il calcio, voti Berlusconi, ti piace la pasta, sai cucinare, hai i capelli e gli occhi scuri, sei divertente ecc. Non sono gli inglesi il problema, né lo stereotipo italiano. E’ semplicemente questa dannata e innata predisposizione degli esseri umani a catalogare le persone in gruppi e a generalizzre in base a nazionalità, religione e razza.
Nessuno si rende conto che la nazionalità così come la religione o la razza sono semplicemente delle condizioni che ti vengono date alla nascita e che sono frutto del caso. Nel mio caso in particolare la Sardegna sarebbe potuta rimanere spagnola o conquistata dai mori o dalle truppe napoleoniche e ora in universi paralleli sarei dovuto essere fiero di essere spagnolo, magrebino o francese. Ma che senso ha?
Non ho niente contro l’Italia in particolare, né contro il Regno Unito, né contro la Francia o il maghreb. Per me sono semplicemente dei contenitori vuoti senza alcun significato. Le mie passioni sono transnazionali così come i miei pensieri e idee politiche che sono universali e non hanno alcun collegamento con la nazionalità. Sono un uomo di scienza, sono un libero pensatore, sono un libertario e le mie passioni spaziano dalla fantascienza al metal, dall’arte alla letteratura. Tutte queste caratteristiche che mi rendono me stesso hanno forse qualcosa a che vedere col mio passaporto? No. Perché le ho scelte, non mi sono state imposte. Io ho deciso cosa essere, non un caso fortuito che mi ha voluto far nascere in quell’ospedale che in quel momento faceva parte dello stato italiano per una serie di coincidenze storiche. Come si può essere orgogliosi della propria nazionalità se è solo frutto del caso e non di una scelta? Si può essere orgogliosi di essere scienziati o libertari o metallari per fare degli esempi che mi sono cari, ma come si può essere fieri di una nazionalità, di una religione o di una cultura che ci sono state imposte. Mi rifiuto di accettare una condizione che mi è stata imposta. Sarebbe come se una mosca dicesse a se stessa: “Sono orgogliosa di essere una mosca perché sono nata mosca!”.
L’altro giorno parlavo di tutto questo con un collega inglese e credo di averlo tramortito con questa visione della vita (forse mi sono lasciato un po’ andare con un monologo di 10 minuti ma vabbé lui mi ha stuzzicato con le solite domande sulla mia italianità). Ho cercato di spiegargli che una volta che si vive fuori dal proprio paese per tanto tempo si riesce a vedere il mondo in modo diverso, si riesce a vedere se stessi in modo diverso e ci si trasforma in una sorta di chimera che assorbe pezzi dovunque cammini.
“You just become something different.”
“And what did you become?”
Mi fermo e ci penso per alcuni secondi (cosa che mi capita raramente in questo tipo di conversazioni) e dico:
“I just became myself.”
E lì, nonostante la persona di fronte non avesse capito un cazzo dei miei discorsi, mi sono reso conto che quei 10 minuti sono serviti a qualcosa. A rendermi ancora più chiaro quanto sia importante fare tabula rasa di tutto quello che ci è stato imposto e scegliere (ecco la parola magica che mi piace associare a me stesso) ciò che ci pare più giusto, appropriato, vicino ai nostri gusti, moralmente lecito ecc. Uscire dal liquido amniotico delle tradizioni e della massa informe e diventare un individuo.
Abbandonare la propria nazionalità significa riscoprire la propria individualità, significa diventare se stessi.